“Così Emiliano e De Luca hanno salvato il Sud”, intervista a Beppe Vacca

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L’Europa che emerge dal voto, il dato italiano, le prospettive della sinistra. La parola a Beppe Vacca. Professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bari, già direttore dell’Istituto Gramsci, Vacca è stato più volte parlamentare del Pci.

Professor Vacca, qual è il segno politicamente più rilevante, in Europa, del voto dell’8-9 giugno?
Il dato più significativo è l’astensione. Nella situazione in cui si è votato, nella quale era evidente, come avevamo rimarcato nelle nostre precedenti conversazioni, un’assenza di iniziativa dell’Europa, soprattutto sulla guerra in Ucraina e poi anche su quella di Gaza, che ha evidenziato plasticamente il logoramento, il venir meno, del suo progetto di potenza civile, capace di promuovere iniziative di pace e di equilibrio. Essendo stata l’Europa sostanzialmente sospesa, la fiducia dei cittadini si è abbassata significativamente, mentre, paradossalmente, avrebbe dovuto essere il contrario.

Vale a dire?
Se ci fosse stata una ipotesi di ruolo importante, globale, di ritrovare i termini dell’accordo, dell’equilibrio, della pace da parte del soggetto europeo, avremmo avuto altri comportamenti. A questo si collega anche un andamento del voto che è sempre più a marcatamente nazionale. Nella sospensione del soggetto europeo come player globale e potenza civile, c’è il ritorno dei nazionalisti. È un contraccolpo, il portato del fatto che l’unica dimensione effettiva che si è imposta ai ventisette Paesi dell’Unione europea, nell’ultimo biennio, come dimensione sovranazionale sia stata quella della Nato. Una Nato non solo a trazione statunitense, ma è anche un’Alleanza che ha cambiato missione. Questo è il terreno su cui è ovvio che ritorni l’immagine di una Europa delle nazioni. E così i cittadini che, sempre meno, decidono di votare, votano, più o meno, su agende economico-sociali frustrate oppure si riconoscono di più in leadership di destra che sono venute affermandosi in questi anni. È il caso della Meloni come della Le Pen.

Il caso francese.
Non so se funzionerà il deterrente che si è affrettato a mettere in campo, peraltro tardivamente, Macron, cioè le elezioni legislative anticipate. Ho l’impressione che il lepenismo sia stato metabolizzato come una forma di nazionalismo tollerabile e non so se il vecchio antifascismo farà più da argine.

E in Italia?
In Italia è un po’ a stessa cosa. C’è stato un più che buono risultato del Pd della Schlein che ha condotto una buona campagna. La postura del Pd è stata aperta, unitaria, come dimostrano candidature come quella della Strada e di Tarquinio. A fronte di ciò, non c’è stato un profilo dei 5 Stelle che ne salvaguardasse l’elettorato.
Altro dato, a mio avviso significativo, è che si è ricreata una netta distinzione tra Nord e Sud, secondo linee che non sono nuove, con un Nord molto più “egoista” territorialmente e un Sud che avverte molto di più l’esigenza dello Stato unitario, e questo premia il Pd.

Cosa resta del centro?
Il fallimento dei due “solitari”, Calenda e Renzi, con le loro piattaforme alquanto fittizie. Nel caso di Calenda, soltanto una marcatura atlantista a cui peraltro non si capisce rispetto al governo nazionale che cosa ne corrisponda, e nel caso di Renzi, una grande diffusione. A questa débacle dei “solitari” centristi, fa da contraltare un più che buono risultato della sinistra-sinistra, l’Avs di Bonelli e Fratoianni. A premiarla è stato il voto giovanile e soprattutto la possibilità di individuarla come una formazione unitaria, la sinistra del centrosinistra, ma chiaramente critica verso la posizione dell’Occidente sull’Ucraina, la mancanza di iniziative che tendano a risolvere il conflitto e il permanere di una postura fortemente antirussa. A tutto questo si è sommato lo sterminio dei palestinesi. Un voto, quello all’Avs, più consono a quello che avrebbe dovuto essere l’Europa. Una Europa non sospesa.

Concetto questo molto forte, presente in un libro di cui lei è stato uno degli autori, I nodi dell’Occidente. Sovranismo individuale. Crisi delle democrazie. Guerra (curato da Massimo De Angelis, edito da Belfiore).
L’Europa è sospesa. Lo si vede anche da come abbia rinnovato l’austerità, al ritorno a prima del Covid, a prima del Next Generation EU. Si riaccentua la nazionalizzazione delle agende che in un contesto di guerre e di violenza premia la destra, perché una sinistra che le sappia contendere il passo in maniera unitaria e con ispirazioni forti, credibili, non si vede. Senza per questo nulla togliere all’apprezzamento della condotta del Partito democratico, se non altro perché nei fatti c’è stata una correzione rispetto all’iperatlantismo precipitoso e servile cominciato con Letta.

“La guerra silura Scholz e Macron”. Titola l’Unità un impegnato articolo di Michele Prospero.
Macron ha mostrato oscillazioni straordinarie sul problema della guerra, dall’essere all’inizio il più pressante nel sollecitare una iniziativa per trattative di pace, per poi calzare l’elmetto e di dichiarare che la Francia è pronta a sostenere, anche con un intervento militare diretto l’Ucraina. In questo è stato il più risoluto. La mia lettura è che nel complesso dello sfarinamento europeo, Macron tende a salvaguardare la sua presidenza come interlocutore più affidabile degli Stati Uniti. Ma rispetto alla crisi della sua presidenza non so quanto valga.
Per quanto riguarda la Germania, c’è una difficoltà estrema…

Quale, professor Vacca?
Nella nuova strategia Nato e americana, la lotta al “pericolo russo” dovrebbe ricadere militarmente sull’Europa e questo crea dei grossi problemi ai tedeschi, perché la Germania cresce tanto meglio quanto più possa includere una relazione di scambio con la Russia, valorizzandone una proiezione europea. Aggiungo che entrambi, Macron e Scholz, soffrono di una nuova retorica, che viene dagli Stati Uniti, del “pericolo russo” che sinceramente non si capisce in cosa consista, se non in una lettura paranoide, di mera comparazione di Putin a Hitler.

L’importanza di un radicamento nei territori anche come base di un fortissimo risultato personale. Penso alla sua Puglia, professor Vacca, è al risultato ottenuto dall’ex sindaco di Bari, Antonio Decaro, che con mezzo milione di preferenze è risultato il primo in Italia nel Pd.
Alle spalle c’è un lavoro più che ventennale, cominciato con Emiliano sindaco, poi le due giunte regionali di Vendola, con Emiliano segretario regionale del Pd, con Decaro sindaco di Bari e presidente dell’Anci. Un radicamento fatto di una fruttuosa mescolanza di culture politiche. È il modello di Michele Emiliano di cui con piena autonomia è parte Decaro: la costruzione di un partito regionale di massa, che ha mescolato spregiudicatamente, ma col senno di poi devo dire con preveggenza, culture politiche ognuna delle quali chiusa in se stessa era insterilita, non si mescolavano, non producevano. Emiliano ha cominciato da subito a imbarcare i 5Stelle nella sua giunta. Ha proseguito su questo e ha costruito. Chiunque abbia contezza della Puglia e soprattutto del barese, prima del Duemila e in questi vent’anni, non può non riconoscere il grande e positivo lavoro fatto. Mutatis mutandis, lo stesso si può dire del lavoro che è stato fatto in Campania, prevalentemente dal vituperato Vincenzo De Luca, tutt’altro che vituperabile, essendo un uomo politico di solidissime basi culturali, di grandi capacità e di ottimo orientamento politico. Non è un caso che Puglia e Campania sono le due regioni che hanno trainato il ridisegno della cartografia politica del Sud. Sono due baluardi, una maniera positiva e propositiva di rispondere alla frantumazione della nazione, di cui lo sbocco decisivo è stata la riforma del titolo V della Costituzione.

Restando sul piano nazionale. Il Pd aveva molto puntato su un “campo largo” soprattutto sull’asse con il M5S. Ma il forte ridimensionamento dei pentastellati, modifica questo orizzonte?
Direi di no. Quello che si suol definire “campo largo” è un’ovvia strategia di coalizione di centrosinistra, di cui il massimo di responsabilità spetta al maggior partito, al Pd. Non è una questione soltanto di sommatoria di aree compatibili. È il problema della ripresa di un progetto nazionale. Quel progetto nazionale da cui era nato prima l’Ulivo e poi il Pd, su questo fronte è bloccato. Mentre un progetto nazionale è portato avanti dalla destra in altra chiave, quella presidenzialista. Mi auguro che il Pd assuma una forte iniziativa su questo terreno. Il sentiment di queste elezioni, non solo in Italia, va nella direzione di una forma di governo personale, comunque la si faccia, premierato o no, monstre o no, fondata sulla personificazione della fiducia, i cui riferimenti ideologici sono frammentari, aleatori, fluidi. Apprezzo peraltro lo sforzo della Schlein di tenere i piedi anche nella dimensione sindacale, soprattutto nel rapporto con la Cgil, meno con la Cisl che invece dovrebbe essere curato di più e meglio. Resta il fatto, preoccupante, che siamo in un paesaggio profondamente mutato, nel senso dell’individualizzazione estrema del rapporto fra il cittadino e la politica, e la crisi dei vari tessuti dei corpi intermedi è un dato della metamorfosi dell’Occidente negli ultimi vent’anni.

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