Chi era Mastroianni, compagno e antidivo ma per tutti semplicemente Marcello

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“Marcello”, sì, era infatti Marcello, ancor prima che Mastroianni. Prima professione: perito edile. Marcello venuto al mondo a Fontana Liri, Ciociaria, piccino comune occupato dai tedeschi durante la guerra per la presenza di una fabbrica di polveri da sparo, che ha subito rastrellamenti e bombardamenti alleati che hanno provocato la morte di molti abitanti e la quasi totale distruzione dell’abitato.

“Con eroica determinazione costituiva un nucleo partigiano e offriva un’ammirevole prova di generoso spirito di solidarietà accogliendo i militari fuggiti dai campi di concentramento”, la motivazione per la Medaglia d’argento al valor civile. Marcello da lì presto trasmigrato a Roma. Quartiere San Giovanni, via Sanremo, decoro edilizio piccolo-borghese, ciclopico e popolare insieme nello stile “littorio”. Su tutto, Marcello amava raccontare il cibo cucinato da Ida, sua madre, che proprio nel quadrilatero tra piazza Asti e il deposito Atac di piazza Ragusa, già bombardato dalle fortezze volanti alleate nel febbraio 1944, aveva casa. Nel suo palmarès, cosa nota, l’incontro con Federico Fellini, che ne farà il suo “doppio” cinematografico, un sodalizio “siamese”. Cuspidi assolute La dolce vita e 8½, che non necessitano commento.

Il racconto delle “sue” donne: Catherine Deneuve e Faye Dunaway. Un sogno infantile mai del tutto giunto a compimento: interpretare Mandrake, l’eroe dei fumetti, facendo così ritorno a una magica, eterna, infanzia. Un collega, Adalberto Maria Merli, ama raccontare di lui un “animo da generico”, la gioia negli occhi di Marcello quando, sul set, giungeva il momento della distribuzione del “cestino”, Mastroianni, cucchiaio in mano, da immaginare come l’ultima delle comparse, la felicità per il pasto, seduto in un angolo e assorto. Merli ne narra altrettanto il candore durante una visita al Museo del Prado di Madrid. Con Mastroianni lì a indicare i volti dei dignitari con gorgiera dei quadri di El Greco o Velázquez: “Ma questo nun te pare che ha la stessa faccia del nostro attrezzista?”.

Marcello Mastroianni, nessuno come lui. “Antidivo” per indole naturale, irrilevanti davanti alla sua natura irripetibile perfino i premi che ne hanno accompagnato il fulgore e la storia professionale, se poi davvero questa parola – divo – riuscisse a restituire il destino di un ragazzo nato a Fontana Liri il 26 settembre 1924, cent’anni ora. Eccolo “giovane attore”, il casco coloniale del pizzardone in Domenica d’agosto di Luciano Emmer nel 1949, gli esordi. Qualche anno dopo, nel bianco e nero di Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani invece in un ruolo drammatico; la sua versatilità, anche questo un dono di natura. Già adulto, quasi anziano, viso bistrato, frack di un azzurro smagliante, infine felice di interpretare Mandrake, sia pure come citazione di sé stesso per un immaginario spot, in Intervista (1987) un dono, un omaggio dell’amico “Federico” che amava vezzeggiare “Marcellino”. La sua umana naturalezza, si è già detto? Anche quando, intervistato in un talk negli Usa insieme all’amica Sophia Loren, davanti all’etichetta di “latin lover” smentisce il luogo comune dell’italiano leggendario “scopatore”; l’imbarazzo dell’accompagnatrice, il sudore sulla fronte del conduttore. Anche lì nel suo sguardo, in lui, nel timido imbarazzo, vive il giovane perito edile, il disegnatore tecnico presso il Comune di Roma e poi, a Firenze, per l’Istituto geografico militare, Marcello che sulla linea puntinata della tessera postale mostrava sempre il laggiù di Fontana Liri.

Mastroianni che tra le “pischelle”, le vicine di casa finalmente romana, nella quiete di un sopraggiunto dopoguerra, intatta l’ombra edilizia del Ventennio, avrà Silvana Mangano. Ragazzi romani, ragazze romane, per entrambi il cinema come casualità. D’altronde, lo stesso Mastroianni non mostrava retorica professionale, diceva semmai di essersi ritrovato “una faccia giusta”. Molti lo ricordano perennemente al telefono, Alberto Sordi, collega orgogliosamente “scapolo”, ne raccontava invece, stupito, i tormenti amorosi, trovando incomprensibili le lacrime per Faye. Marcello dalla natura terribilmente “infantile” vive altrettanto nei racconti di Barbara, la figlia avuta da Flora Carabella, moglie dalla quale mai volle divorziare, raccontava appunto Barbara che un giorno il padre le chiese di chiamare la Dunaway per convincerla a tornare con lui, una telefonata priva di esito.

Si dice ancora, e personalmente sono stato tentato dal chiederlo proprio alla Deneuve, una sera a Parigi scorgendola, passante, sigaretta in bocca, in place Saint-Sulpice, se c’era verità nella storia che proprio “Marcello”, le rimproverava di non saper cucinare le polpette al forno come invece sua madre Ida. E chissà ancora se è altrettanto certo che proprio lui, Mastroianni, aveva pagato la campana della chiesa di piazza Asti, così almeno affermava sicuro di sé il barbiere anziano del luogo, pronto a raccontarlo altrettanto devotamente in visita familiare. Ora giovane “burino”, a Fondi, accanto a Marina Vlady, neorealismo “rosa” temperato sui toni delle tele non meno ciociare di Domenico Purificato, ora ne Le notti bianche diretto da Luchino Visconti, recitazione composta, asciutta, antiretorica, la C docilmente accentata nella voce, ed era soltanto il 1954. Verranno anche i baffi del barone Cefalù in Divorzio all’italiana di Pietro Germi, 1961, Mastroianni maschera perfetta anche da siciliano brancatiano.

Lo ricordiamo mosso da un sentire “civile” nell’intervista rilasciata, ormai anziano, a Enzo Biagi, lo ricordiamo a montare la guardia d’onore al feretro di Enrico Berlinguer nell’atrio di Botteghe Oscure, lo ricordiamo ancora ai funerali di Federico Fellini al Teatro 5 di Cinecittà, Marcello che scende dall’auto e rivolto alla siepe scomposta di cronisti che vorrebbero da lui una parola di cordoglio: “Oh, state sempre a fa’ casino”. Diversamente da Sordi, Manfredi, Tognazzi e Gassman, non è necessario annoverarlo tra i cosiddetti “colonnelli” della commedia all’italiana, Mastroianni occupa infatti una propria, tutta sua, altana, e non per meriti accademici, l’unicità umana, caratteriale, ne ha fatto piuttosto il nostro “Marcello”. Tra i suoi lavori, come dire, “di servizio”, va ricordato nuovamente accanto a Sophia Loren, ne I girasoli di Vittorio De Sica, 1970, filmone melodramma sulla sorte dei soldati dell’Armir dispersi, e nel suo caso ritrovati nella finzione, nella Russia sovietica; più che un capolavoro, lavoro di routine per il pubblico che affollava un tempo le sale, quando era ancora concesso fumare al cinema.

Nel 1980, richiamato da Federico Fellini quasi vent’anni dopo 8½, sarà protagonista di La città delle donne, apologo grottesco e insieme scintillante sul declino del supermaschio davanti alla novità politica del femminismo. Guido Anselmi non è più il regista smarrito e divorato dal dubbio creativo sull’opera da realizzare, tra tormenti sentimentali e momenti onirici – come l’inarrivabile sogno dove ritrova il padre morto – veste invece l’abito di Marcello Snàporaz, che tuttavia a Guido molto assomiglia, un signore ormai adulto, le armi della seduzione istantanea, quasi fotografica, appaiono spuntate davanti a una misteriosa “tentatrice”, appena sfiorata sessualmente, in treno. Da testimone presente sul set, sempre il Teatro 5, ne ricordo la grazia e l’ironia, durante la scena del processo: Mastroianni-Snàporaz-Marcello Rubini alla sbarra, a giudicarlo un’inquisizione di ragazze virago clownesche. Con Fellini lavorerà ancora nel 1985, in Ginger e Fred, il cinema cancellato dall’invadenza televisiva ormai egemone. Per “Marcello” il momento più straordinario dell’esistenza, ricordo assoluto dell’intera vita meritevole di salvezza nella rêverie assai più che proustiana – ciriola o maritozzo in luogo di “madeleine” – quando suo papà Ottorino, falegname, rivolto al fratello, lo zio, smetteva di lavorare, spegnevano la sega circolare per andare a mangiare un panino; l’odore dei trucioli e della segatura tra le cose più indimenticabili.

In un altro ricordo che Adalberto Maria Merli custodisce c’è Mastroianni che ama visitare tutti i giorni lo zoo di Madrid, improvvisamente “un vecchio pellicano, lasciato libero, punta Marcello e va verso di lui. Marcello corre e urla: ‘Fermatelo!’ e intanto sembra divertirsi felice. Ha trovato il suo giocattolo. I turisti giapponesi, che lo hanno riconosciuto, filmano la scena”. Chiunque, residente romano, passi da piazza Armenia, sempre San Giovanni, non può fare a meno di ricordarlo nella scena finale de I soliti ignoti: il colpo è fallito, Mastroianni fa ritorno a casa, ha un braccio fintamente ingessato, sale sul tram e, rivolto al bigliettaio, pronuncia solenne: “Grande invalido”. Nessun altro mai come “Marcello”.

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