Cosa significa essere umani, Vittorio Gallese e Ugo Morelli indagano sui meccanismi percettivi

RMAG news

Un tempo si diceva che la cultura era di sinistra perché la natura è di destra. Oggi apprendiamo che la natura contiene innumerevoli cose, ma che alcune di queste potrebbero perfino rafforzare i valori di giustizia e libertà cui la sinistra migliore si ispira. Prendiamo un libro prezioso, Cosa significa essere umani (Raffaello Cortina editore), di Vittorio Gallese (scienziato che scoprì con altri i neuroni specchio) e Ugo Morelli, psicologo e studioso di scienze cognitive.

Quando due neuroscienziati si interrogano su cosa significa essere umani sappiamo che quanto ci diranno si basa sulla ricerca neurobiologica, oltre che su riferimenti filosofico-letterari. Insomma i “valori” sono quelli, personalmente li vedo mirabilmente riassunti nella “democrazia della ginestra” leopardiana, nella solidarietà fraterna di tutti gli esseri umani, accomunati da fragilità e precarietà. Ma è decisivo radicarli nella nostra biologia, nelle nostre risposte adattive. Insomma qui si verifica “sul campo” la bontà di un dialogo tra scienza e cultura umanistica. Prendiamo subito l’idea che “in principio c’era la relazione”(Buber), che il nostro essere individui è relazionale, intersoggettivo, tanto che sarebbe più corretto definirci “coindividui”.

Bene, oggi apprendiamo che indagando una coppia di feti gemelli in utero si scopre che i movimenti diretti all’altro feto sono più “sofisticati”, direttamente controllati rispetto a tutti gli altri (anche quelli verso se stesso): l’incontro con l’altro, comunque rallentato e che prelude al “rispetto”, comincia già nell’utero! Tutto è relazionale, anche la conoscenza stessa, che significa accrescere le proprie potenzialità di relazione con il mondo, attività regolata da affettività e cognizione (mentre oggi la relazione educativa è in crisi perché spesso manca la risonanza). O pensiamo anche alla natura imitativa di tutto il nostro agire: al contrario degli animali i nostri neuroni specchio si attivano continuamente, tendiamo a imitare non solo i comportamenti con uno scopo ma anche quelli gratuiti, come alzare un dito. Innumerevoli gli esperimenti citati in queste pagine e le considerazioni sulla natura umana passate al vaglio delle neuroscienze affettive e cognitive. Unico possibile difetto del libro è un ipercitazionismo anche utile ma appena congestionato, e a volte fa aggio sulla qualità della scrittura, che passa in secondo piano. Ma nessuno è perfetto!

Ci resta un saggio affascinante e documentatissimo, che nell’approccio al cervello e alla sfera delle emozioni ci ricorda continuamente che il corpo “viene prima”, una verità spesso negata da chi ritiene che ci avvicinerebbe troppo agli animali. Così, quando qualcuno ci dice un sì ma sentiamo che detto in quel modo è in realtà un no, “è col corpo che filtriamo il significato delle parole”. I due autori ci aiutano a comprendere, e smontare, i nostri innumerevoli bias (errori) cognitivi, ad esempio scambiare la familiarità, l’abitudine con la verità: la ripetizione ci fa credere a cose false: è fondamentale “come” formuliamo un qualsiasi problema, da ciò dipende la nostra decisione.

Un capitolo è dedicato al bello, all’arte, all’esperienza estetica come esperienza del mondo: la bellezza è vista non come cosmesi ma come fenomeno di “risonanza incarnata”, come realtà condivisa e “aumentata”(arricchisce la prosaica realtà quotidiana di dimensioni nuove, rende speciale l’ordinario). La finzione letteraria veicola conoscenza: “far finta è una pratica di verità”. D’accordo, anche gli animali interagiscono e giocano tra loro, anche con delle ritualità, ma lo fanno in modo aintenzionale. Ricordo come per la scrittrice Iris Murdoch morale e arte sono accomunate dal fatto che ci permettono di immaginare l’altro, dunque di far esistere il mondo, nella sua ricchezza e varietà. Inoltre, tutta la ricerca in questo campo conferma l’inadeguatezza di qualsiasi visione dualistico-cartesiana: “la nostra razionalità è procedurale e intarsiata di emozioni”, quindi, come tale, incarnata”. Il pensiero nasce come pensiero emotivo, non ve ne è di altro tipo. E la poesia è la quintessenza del pensiero emotivo.

Il vero nemico è non l’odio ma l’indifferenza, che per gli autori non tanto è “naturale” quanto invece il superamento di una naturale risonanza con gli altri esseri umani, risonanza che appunto comincia già nella fase prenatale (si pensi alla relazione con la madre, con la voce materna): siamo per così dire cablati per essere sociali. Ora, al di là delle nostre buone intenzioni si potrebbe osservare che la nostra esistenza materiale, di noi occidentali, con i suoi livelli di consumo, esprime una indifferenza oggettiva verso il pianeta e verso i poveri e gli sventurati. Qui dunque ci viene assegnato un impegno specifico: riuscire a “vedere” l’altro, simile e diverso da noi, farlo rientrare nel focus della nostra attenzione. Potremmo anche decidere diversamente e cancellarlo. L’etica comporta una scelta. Chissà che alla fine “essere umani” consista proprio in questo, nella capacità responsabile di scelta. Scegliere di non essere soli nell’universo, scegliere l’essere e non il nulla.
Come apprendiamo nel libro, siamo tutti instancabili “cercatori di significato”, spinti a trascendere noi stessi in quanto esseri incompleti.

L’artista è colui che si fa “attraversare dall’infinito delle cose” “pur riconoscendosi provvisorio ed errante”. La bellezza aspira a un oltre, e la vita va vissuta come “progetto e invenzione”. Resterebbe l’obiezione radicale di Oblomov, apatico e sognatore. Chiediamoci: chi invece trascorre l’esistenza in veste da camera, senza cercare significati e senza progettare alcunché, abbandonandosi passivamente al flusso delle cose, senza alcuna propensione all’eccedenza, va giudicato meno degno? Certamente no. Ma per gli autori è importante soprattutto una cosa: opporsi al consueto, allo stereotipato, alla mera continuità, qualsiasi vita si intenda vivere. Il merito principale della loro riflessione resta però quello indirettamente “politico”. Consiste cioè nel mostrarci l’empatia – dal punto di vista biologico – non tanto come “valore” quanto come condizione dell’esistenza stessa: solo attraverso la intersoggettività ognuno di noi diviene quello che è.

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