Una lezione di stile. Presidenziale. Quella impartita da Kamala Harris a Donald Trump nel primo, attesissimo, faccia a faccia televisivo. La parola a Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York.
Secondo l’instant poll della Cnn, lanciato durate e dopo il duello televisivo, il 63% degli americani che hanno assistito al dibattito, ha votato per Kamala Harris, con tanto di endorsement di Taylor Swift, mentre solo il 37% ha sostenuto la vittoria di Donald Trump. Se lo aspettava?
Questo dibattito era molto importante soprattutto per far conoscere al grande pubblico americano Kamala Harris. Il 27% degli elettori potenziali non la conoscevano. Volevano avere informazioni di prima mano di lei. Da qui l’importanza del dibattito. Kamala doveva uscire da una sorta di cono d’ombra politico-mediatico, quello in cui era finita nei quattro anni di vicepresidenza. Volevano sapere chi fosse.
C’è riuscita?
Direi proprio di sì. Ha sciolto molti dubbi. Si tratta di capire adesso se le risposte che lei ha dato, tutte estremamente articolate, puntuali, sul pezzo, sono state recepite dalle varie fasce della popolazione: sulla questione mediorientale, sulla questione dei giovani, su quella delle donne… Kamala ha calibrato le sue risposte rispetto a questi segmenti di elettorato. Si tratterà di vedere e analizzare, già dai prossimi giorni, quali saranno le reazioni di queste fasce elettorali.
Kamala Harris, nel corso del confronto televisivo, ha sottolineato con forza: “Io non sono Biden”. Come declinare questa affermazione?
È stata molto brava in questo. Per sminuirla, in tutto il dibattito Trump l’ha considerata una sorta di minus habens, d’incapace, una figura secondaria. Voleva far capire all’elettorato americano che la Harris non aveva personalità, lasciando intendere che la scelta era ancora tra lui e Biden, del quale – era il messaggio di Trump – Kamala Harris era solo una controfigura di poco conto, senza personalità
E invece?
Harris ha saputo contrastare questa narrazione superficiale e misogina. Lo ha fatto con piglio e con stile. Lei ha detto “io non sono Biden, io sono io”. È stata una risposta che ha affermato sia la sua autonomia, sia la sua dignità come candidata. E lo ha rimarcato molto bene.
Vale a dire?
Ha affermato di essere stata parte attiva nell’amministrazione Biden e al tempo stesso ha sostenuto che svilupperà in maniera diversa o in maniera specifica alcune di queste politiche che erano già state avviate nell’era di Obama prima e nella presidenza Biden poi. C’è un concetto su cui Kamala ha molto insistito e che io trovo particolarmente efficace come tratto distintivo della sua campagna presidenziale e, se sarà vincente, nei suoi quattro anni alla Casa Bianca…
Qual è questo concetto, professoressa Urbinati?
Move forward, andare avanti. Andare avanti all’interno di quel filone, ma con altre caratteristiche e opportunità.
Passiamo ai contenuti…
Prima, però, credo importante soffermarci sullo stile.
Nel senso?
Nel senso che Kamala Harris ha dato una lezione di stile a Donald Trump. Su questo piano, per nulla secondario, lei non ha vinto il confronto. Lo ha stravinto. Non è questione di bon ton. Ma di sostanza politica. Anzitutto, ha dimostrato di essere sempre capace di rispondere alle questioni che venivano poste. Trump non ne ha risposta una. Quando si trattava di rispondere sull’economia, parlava di immigrati, quando si trattava di parlare di immigrazione, rispondeva sull’Afghanistan e via incasinando… Lui voleva solo far polemica. Buttarla in caciara, si direbbe a Roma. Non aveva argomenti da proporre. È come se non avesse studiato e si affidasse al suo appeal mediatico.
E Kamala?
Lei ha preso tutte le domande molto sul serio, argomentando le risposte di merito. E quando è intervenuta per precisare rispetto a ciò che diceva Biden, lo ha fatto sempre molto chiaramente, spiegando e non lasciandosi andare a contumelie o a bassa propaganda. Lo ha messo alle corde come solo una buona procuratrice sa fare, ovvero lo ha messo di fronte a quello che ha fatto e a quello che ha detto, e a quello che ha detto di aver fatto e non ha fatto.
Ad esempio?
Prendiamo un tema fondamentale: l’immigrazione. Il Senato, durante l’amministrazione Biden, era in procinto di far passare una normativa molto importante, che aumentava il numero del personale federale negli stati frontalieri col Messico, quelli della zona sud degli Stati Uniti. Tutte proposte che originariamente avevano fatto gli stessi Repubblicani. Ebbene, Trump ha ordinato ai suoi congressisti di non votarlo, altrimenti non avrebbe avuto un argomento in campagna elettorale. Harris ha fatto presente questa contraddizione e Trump non ha risposto. Su questa contraddizione si baserà molto della campagna elettorale da qui al voto di novembre. La manipolazione che Trump fa per tenere aperto un problema a lui caro. Harris l’ha rimarcato con nettezza, quando ha detto tu non può pensare esclusivamente agli interessi della tua campagna elettorale. “Se avevi veramente a cuore il problema dell’immigrazione dovevi far votare questa legge”.
Altri temi cruciali?
Quello dell’economia, senza alcun dubbio. Un tema molto interessante.
Perché?
Perché Trump l’ha impostata sul protezionismo classico: mettiamo i dazi ai prodotti che vengono dalla Cina. Si sa, lo dice la storia, che le politiche protezionistiche aumentano i prezzi e quindi rendono più difficile, per il mercato nazionale, di essere attivo, dinamico, e che queste politiche possono generare recessione. Harris lo ha detto molto chiaramente. È un problema estremamente serio quello di usare il protezionismo come arma economica, come intende fare Trump. Peraltro, il protezionismo non aiuta neanche l’innovazione, perché l’innovazione ha bisogno di concorrenza, di competizione attiva. Quando mai una politica di dazi favorisce la crescita? Altro tema cruciale sarà quello dei diritti, soprattutto per le donne, i giovani e – ovviamente – le minoranze. Su questo Trump gira a vuoto, ripete come un abusato mantra, che per lui non esiste un problema della razza, che lui non è proprio contrario all’aborto, basta che non lo si faccia al nono mese. Ha detto cose assurde. Su tutti questi temi, a me pare che nel dibattito dell’altra notte, Harris sia stata molto più presidenziale.
Superficiale, confuso, ripetitivo. Tuttavia, i sondaggi danno ancora Trump un filo sopra o sotto Harris.
Anzitutto, noi italiani sappiamo bene cosa significhi avere leader populisti, confusi, che però sono molto amati e votati. Questo vale anche per gli Stati Uniti. Trump è un leader populista. Gli argomenti che usa sono quelli che il suo elettorato vuole sentir dire: attacco frontale all’establishment politico dei democratici, l’uso sapientemente cinico della retorica “waves”, delle onde. Tanti argomenti diversi che lui unisce, per l’appunto, ondeggiando, cosa che è propria della metodologia dei populisti. Argomenti che fanno presa, da sempre, nell’America più reazionaria, fondamentalista. L’argomento anti-immigrazione era già diffuso contro gli immigrati italiani, polacchi, irlandesi all’inizio del secolo scorso. Sono temi che ricorrono periodicamente di fronte alla crescita dell’immigrazione. E ci sono sempre partiti, movimenti, leader che quei temi li sfruttano, cavalcando e alimentando paure, insicurezze e anche suprematismi razzisti. Trump è amato anche per questo dall’America più chiusa, per non dire “retriva”. E poi fa presa il suo presentarsi come non politico di professione, un battitore libero di successo che decide di testa sua. Un tycoon di successo che non si arricchisce con la politica. Cosa non vera, i suoi affari andavano malissimo quando è entrato in politica, poi, guarda caso, si sono assestati. È finito più volte in bancarotta. Non è che sia un grande tycoon senza macchia. Però si presenta così, e in un certo mondo dove tutti vorrebbero sgomitare e farsi largo non importa come, Trump resta un modello. Metà dell’America segue ancora questo modello.
Vorrei che tornassimo sui democratici. Harris è riuscita a unificare un partito dalle tante anime?
I dem sono un universo poliarchico. Al suo interno ci sono molti movimenti all’interno del partito, diversi interessi organizzati. Si va dal più liberista al più socialdemocratico. C’è tutto l’arco delle possibilità di una politica democratica. Tutte quelle piccole schegge che in Italia abbiamo divise in partitelli, lì sono dentro un unico contenitore. Periodicamente, si manifestano, imponendosi, temi unificanti. E oggi, a mio avviso, il tema unificante non è Harris ma Trump. Donald Trump ha unificato l’intero partito, l’universo dem. Sia i liberisti che i socialisti o radicali, pensiamo ad Alexandria Ocasio-Cortez, per non parlare dell’eterno Bernie Sanders: sono tutti in linea con questa idea. Ciò significa che per battere Trump devono dire cose e fare politiche che Trump non può sopportare. Lui li chiama tutti comunisti, marxisti. Essere unificati da Trump, li rende più in sintonia con le loro radici. Devono essere per forza anti-liberisti e anti-Trump. Del resto, oggi, e lo stesso Trump lo dimostra, il liberismo è in caduta libera. Ovunque si vada, a nord o a sud dei continenti, c’è una richiesta diffusa, crescente, di redistribuzione e di interventi sociali. Gli esclusi non stanno più al gioco. Il liberismo è finito. Tant’è che lo stesso Trump deve dire che è favorevole a sconti fiscali etc, ma si capisce che sono appiccicati alla sua politica, mentre i democratici sono meno posticci e più in sintonia con la loro tradizione migliore, quella da Lindon Johnson in poi, per non tornare a Roosvelt e al suo New Deal, vale a dire le condizioni sociali della cittadinanza, intese come uguaglianza di opportunità, e giustizia sociale come opportunità di movimento sociale.
Nella corsa alla Casa Bianca, quanto può pesare la scelta dei vicepresidenti?
La scelta fatta da Kamala, quella di Tim Walz, vuol dire aver puntato su un perfetto “midwest”. Non è vero che il Midwest bianco, middle class, vota compatto per Trump. La scelta di Walz tende a rassicurare quella fascia di elettorato, quella che sogna una vita dignitosa, e in questo, è una scelta che può rivelarsi vincente. Lui copre una fascia che non era coperta, ad esempio, da Biden con la candidatura di Kamala alla vicepresidenza. Quanto a Vance, la scelta di Trump, negli ultimi tempi si è attirato tantissime antipatie, è silente, perché più parla più fa danni per il tycoon, in particolare tra le donne. E anche quando si rifà alle sue origini popolari, all’uomo che si è fatto da sé, intanto, però, lavora molto bene con Elon Musk e simili. Finora, non pare essere stata una scelta felice per Trump.