Starmer, il premier che deve salvare l’Inghilterra: ma la “valanga” laburista è meno vistosa di quel che appare

RMAG news

Non ha portato bene ai Conservatori la scelta di cavalcare la tigre dell’euroscetticismo accarezzandone troppo dolcemente il pelo. L’animale feroce, sentendosi molestato da cotanta delicatezza, ha reagito in malo modo finendo per sbranare un leader Tory dopo l’altro. Con l’umiliante disfatta di giovedì, la peggiore incassata dal 1834 ossia dalla fondazione del Conservative Party, si è conclusa un’epoca mediocre per la politica inglese. Nel terribile 2016, con i due fendenti micidiali rappresentati dall’ascesa di Trump alla Casa Bianca e dal clamoroso successo della Brexit nel maldestro referendum promosso dal premier Cameron, il populismo divenne un insidioso ed espansivo fenomeno globale. Il fantasma di un aspirante golpista patentato torna adesso a tormentare Washington, quando invece a Westminster l’operazione di immunizzazione del sistema dalla malattia esiziale dell’antipolitica parrebbe riuscita.

Il suicidio del Partito Conservatore (solamente 121 seggi, con una perdita di 244 deputati) rivela la pochezza di una leadership che, a corto di progetti, ha decretato la trasformazione dei Tories in un monotematico soggetto in grado di issare lo scalpo dei migranti, con la loro deportazione in terre lontane, come affascinante stella polare. Il tonfo rovinoso, che segue la metamorfosi in una formazione essenzialmente reazionaria, è in fondo cosa più evocativa della stessa vittoria laburista. Il nuovo premier Keir Starmer a momenti non raddoppia i seggi (da 210 sale a 412), tuttavia l’incremento in termini di suffragi reali è soltanto di un misero 1,6%. Con il 33,7% dei consensi i Laburisti ottengono ben il 63% degli onorevoli. La distorsione indotta dal meccanismo maggioritario amplifica un’affermazione che ha del sensazionale nella rappresentanza e però è meno eclatante nel conteggio delle schede.

Il Labour conquista l’egemonia non certo perché ha da ultimo riscoperto le armi della moderazione di un’agenda riformista, capace di regalare in dote agli audaci, oltre all’appoggio di media (perfino il “Sun”) e finanza (spaventata dal debito pubblico schizzato al 90% del Pil), anche le ampie praterie del centro. Il rosso Corbyn, che salutava con il pugno chiuso e abbozzava antichi canti di lotta operaia, aveva racimolato alla prima prova elettorale, quasi sette lunghezze in più rispetto a Starmer: contro i sondaggi, che davano i Laburisti in grande affanno e sotto di almeno venti punti, il sinistro ex sindacalista superò il 40%, raccogliendo 12 milioni e 877 mila voti. L’harakiri del conservatorismo, che non voleva nemici alla propria destra e ora sprofonda con il dato allarmante del 23,7% (addirittura meno 19,9 rispetto alla tornata precedente), non solo affida a Starmer le chiavi di Downing Street, ma favorisce una frantumazione inconsueta a Westminster: l’indice di bipartitismo, cioè la somma delle due maggiori forze, si ferma appena al 57,4%, era all’82,3 nel 2017.

A destra, Farage si assicura l’agognato scranno all’ottavo colpo (il suo partito prende il 14,3%, lievitando del 12,3); al centro, i Liberal Democratici registrano un leggero rialzo (dello 0,7%, che li colloca al 12,2%, con 71 parlamentari; a sinistra, spiccano il 6,8% dei Verdi (in crescita del 4,1%, con 4 seggi) e anche il tributo personale a Corbyn nel collegio di Islington North (con 24120 preferenze si riappropria del posto alla Camera dei Comuni sorpassando da indipendente il candidato laburista). L’eclissi del mesto ciclo conservatore lascia un Regno Unito in ginocchio per gli effetti cumulativi di primi ministri fragili e perciò tentati dalle maschere seduttive dell’intrattenimento – Johnson e le sue feste segrete – e dell’improvvisazione – Liz Truss e i 45 giorni sul ciglio dell’abisso finanziario. La sanità è minacciata dalla carenza di organico, la scuola se la deve vedere col boom delle richieste di pasti gratuiti, i servizi pubblici e sociali nell’insieme sono al collasso, laddove, nel paradiso sbandierato di legge e ordine, le rivolte e gli scioperi divampano con assiduità. Le principali attenzioni del governo, guidato finanche da mentitori seriali, ormai da lustri sono andate al riarmo di Kiev, e nel complesso sono stati accantonati gli investimenti produttivi e le politiche di inclusione.

Mentre i salari sono congelati, ad aumentare vertiginosamente sono i numeri delle carceri vendute come il simbolo di un potere finalmente idoneo a sorvegliare e punire. Un’immagine sintetizza al meglio il fallimento della stagione conservatrice: nel 2022 il paese allora trainato dal primo premier di origine indiana è stato scavalcato proprio dalla ex colonia britannica nella classifica del Pil mondiale, scivolando in un’avvilente sesta posizione . Dunque nel rigetto delle “policies” e dei volti usciti pesantemente sconfitti, più ancora che nel passaggio di consegne avvenuto secondo il galateo dell’alternanza, va rintracciato il vero significato delle urne. Da non trascurare è il crollo del 7,4% nella partecipazione elettorale – in controtendenza rispetto alla vicenda francese – che conferisce alle consultazioni il senso del commiato piuttosto che il sapore della speranza. Dopo la Spagna e la Polonia, pure il Regno Unito conferma una intrigante regolarità: anche quello offerto a Sunak da Giorgia detta Giorgia è stato il bacio della morte. Poiché recentemente la madre e patriota ha benedetto romanamente Le Pen e Bardella, forse è il caso che il quartier generale del Rassemblement National non dorma più sonni tranquilli.

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