Ali Asgari, regista de ‘La bambina segreta’: “Un film sulla resistenza delle donne iraniane”

RMAG news

“Se ci chiediamo da dove arriva l’immenso coraggio del popolo iraniano che scende in piazza al grido di “Donna, vita, libertà”, suggeriamo di cercare qualche risposta in questa “piccola” storia”. Con queste parole, Amnesty International Italia motiva il patrocinio al film iraniano La Bambina Segreta di Ali Asgari, al cinema dal 16 settembre con Cineclub Internazionale Distribuzione. È la storia di una giovane ragazza single che si trova a dover nascondere improvvisamente la figlia, nata da una relazione di cui la sua famiglia è all’oscuro. E per parlarne raggiungiamo telefonicamente Asgari durante il suo tour di presentazione in vari cinema d’Italia per sapere di più di questo suo film che lo vede ancora una volta concentrarsi sulle donne coraggiose e rivoluzionarie del suo paese.

Torna a parlare di donne in Iran, come nel suo primo film, Disappearance. Sono protagoniste poiché più combattive e vere portatrici di cambiamento?
Penso di sì, lo abbiamo visto anche negli ultimi due anni, in cui c’è stato questo movimento molto grande che è iniziato con le donne, continuato con le donne e che ancora resta vivo. Secondo me per tanti anni c’è stato un sistema che voleva controllare le donne da diversi punti di vista: il corpo della donna, la mentalità di una donna. Alla fine, però, ora, soprattutto con le nuove generazioni non si può, sono loro che stanno combattendo fortemente contro questo sistema. È per questo che io racconto sempre storie che parlano di donne perché anche io sono cresciuto in una famiglia con sette donne, mia mamma e sei sorelle, tutte più grandi di me. Ho visto quello che è successo e come hanno combattuto per i loro diritti.

Tante le generazioni di donne che mostra nel film ma lei non giudica mai i suoi personaggi, neanche coloro che non riescono a ribellarsi del tutto al sistema.
Generalmente, quando faccio film, cerco di non schierarmi mai troppo contro un personaggio ma di raccontare solo il quotidiano, l’attualità. Traggo tutto ciò che posso dalla realtà e poi aggiungo anche elementi di fiction che vengono dalla mia immaginazione. Anche per questo film volevo raccontare la storia di diverse donne. Ognuna ha la sua idea e posso dire che non è solo la nostra protagonista ad essere vittima di un sistema, lo sono anche i suoi genitori, sua mamma, chi nel film è apparentemente contro di lei. Nella mia famiglia è stato così, mia mamma pensava che una ragazza non dovesse fare certe cose e invece le mie sorelle hanno sempre parlato e voluto fare tutto quello che volevano e pensavano giusto, quindi c’era sempre questo contrasto, questo scontro in casa. La mia famiglia era come una piccola società: c’era mio papà che era una persona troppo religiosa, voleva controllare tutto, soprattutto le mie sorelle. Essere nato in questa famiglia mi ha dato tante possibilità di raccontare una storia del genere.

Cosa racconta invece il suo film degli uomini?
Nel film io volevo raccontare una generazione, più che delle donne in particolare. In questa generazione, a questo movimento partecipano anche gli uomini. Le leader sono donne ma ci sono stati e ci sono tanti uomini che lo hanno supportato e la maggior parte dei morti sono stati uomini. Ho scelto come protagonista una donna per il mio film perché la donna è metafora di un cambiamento femminile.

Che futuro vede per il suo paese?
Quando sono nato c’era la guerra tra Iran e Iraq e la mia generazione aveva sempre paura di tante cose, siamo cresciuti in maniera diversa. Parlando con questa nuova generazione invece, penso che il futuro sarà molto più interessante, ho speranza.

Dopo questo film, nel 2023 ha realizzato Kafka a Teheran con Alireza Kathami, presentato a Cannes, che criticava la società iraniana. Che conseguenze ci sono state?
Dopo quel film, quando sono tornato in Iran mi hanno controllato tutto, mi hanno preso il passaporto, il computer, il cellulare, e non mi hanno lasciato uscire dall’Iran per otto mesi. Ho avuto moltissime discussioni con le autorità perché per loro quel film era troppo critico della società. È stata una situazione brutta e piuttosto grave ma non mi hanno arrestato. Ho solo sofferto molto a livello mentale perché dopo Cannes volevo uscire, volevo presentare il film in giro per i festival e quando è uscito non sono potuto andare alla prima. Potevo immaginare che una cosa così succedesse perché vivendo in un paese del genere, fare quello che vuoi non è una cosa facile ed è un atto di resistenza. Anche io voglio immaginare, io voglio sognare e non voglio che altre persone controllino i miei sogni. Ci sono delle conseguenze sicuramente ma io ho deciso di fare un altro film che sto finendo di girare in Iran. Qui non esiste “fare solo un film”, realizzare una pellicola è un’azione politica, è come combattere contro un sistema.

Che grado di controllo c’è oggi sui film che si realizzano in Iran?
Prima del movimento, noi potevamo fare film indipendenti e trovare fondi ma ora c’è paura anche da parte degli investitori privati che non possono e non vogliono più finanziare un film del genere perché hanno paura che ci siano delle conseguenze. Quindi noi abbiamo più limiti. Per quello la situazione è diventata più difficile, anche dal punto di vista del controllo, che è molto più serrato rispetto a due anni fa. Ora è troppo difficile, ci sono tanti controlli per fare un film perché a un regista conosciuto come me non riesce facile fare un film di nascosto. Io ora ho cercato di fare un film più personale, con pochi soldi e poca gente ma la situazione secondo me per il cinema e l’arte sta peggiorando.

Il film è uscito in sala in occasione dell’anniversario della morte di Mahsa Amini, donna iraniana deceduta il 16 settembre 2022 in seguito all’arresto per la mancata osservanza della legge sull’obbligo del velo. Dal 13 aprile scorso, giorno in cui Teheran ha lanciato il suo primo attacco diretto contro Israele, la polizia religiosa è tornata a pattugliare le strade a caccia delle donne senza velo. Dal suo punto di vista interno alla situazione, a proposito di Israele, che atmosfera si respira? Si temono ritorsioni dell’Iran su Israele, si ha paura di una guerra frontale?
Dal primo giorno in cui sono nato ho sempre sentito queste cose, questi timori di una guerra. Per me non è una cosa nuova perché noi viviamo in una zona in cui ci sono sempre state queste cose. Sono situazioni rilevanti per i governi perché altrimenti non avrebbero altre cose di cui parlare e con queste paure possono anche controllare la gente. C’è sempre una minaccia di guerra, io sono nato nel 1982, nel pieno della guerra Iran-Iraq, c’è sempre stata questa paura. Io credo che tra Iran e Israele non succederà molto, non credo in una guerra diretta tra loro, ma ciò non significa che l’Iran non eserciterà la sua influenza sugli altri paesi che potrebbero danneggiare Israele.

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