Il fondamentalismo di Israele e l’autolesionismo dell’Occidente che supporta la carneficina di palestinesi

RMAG news

La guerra si appresta ora a demolire le vecchie democrazie nello stesso modo in cui il sacrificio in trincea nel primo Novecento decretò il suicidio dell’antico liberalismo. Pervaso da uno spirito autolesionistico, l’Occidente supporta con risorse economiche e sofisticatissime tecnologie belliche un leader di serie B(ibi) che non disdegna le arti sbrigative di un criminogeno terrorismo di Stato. Non c’è però più elevato oltraggio alla memoria dell’Olocausto, e insieme un più forte ostacolo alla sicurezza propria e dell’intera regione mediorientale, che la carneficina dei palestinesi.

È evidente che insostenibile si rivela l’ideologia per cui una giustificazione vada comunque accordata agli atti di sterminio qualora ad accumulare cadaveri straziati dalle bombe o dai cercapersone esplosivi sia uno Stato a reggimento democratico interno. Per le ottuse sentinelle del mondo libero, i missili e i veicoli corazzati ottengono un lasciapassare etico solamente quando l’indiscriminato sfoggio di fuoco è stato deciso da un ceto politico selezionato mediante regolari elezioni. In base a tale logica, persino i morti sembrano avere un peso diverso a seconda del colore della pelle, dell’appartenenza religiosa, della collocazione nel quadro delle alleanze militari. Fa rabbrividire ogni cultore del costituzionalismo moderno la condotta messianica dell’esecutivo israeliano, che, in nome di una santa guerra democratica, legittima la sistematica distruzione di centri abitati, la strage brutale di civili inermi, la mattanza dei bambini, l’invasione della sovrana Repubblica parlamentare del Libano e l’escalation provocatoria delle ostilità verso l’Iran.

Con l’abbattimento del dispotismo clericale di Teheran, verrebbe spalancata, secondo la parola data della guida neobiblica di Tel Aviv, la pace eterna tra “ebrei e persiani”. Frasi dal sapore analogo, nel segno di un interminabile conflitto da protrarre fino alla “vittoria”, ha utilizzato il presidente Zelensky nell’accogliere il nuovo Segretario generale della Nato. Giunto a Kiev in veste di urlante hooligan della diplomazia, noncurante delle disposizioni del trattato cui dovrebbe conformarsi, Mark Rutte ha incitato all’assalto permanente in cambio della solita falsa promessa: “L’Ucraina è più vicina alla Nato che mai e continueremo su questo percorso finché non diventerete membro dell’Alleanza”.

Lo schema metafisico adoperato dai tradizionali neoconservatori americani, allo scopo di avallare le cosiddette “guerre preventive, il “regime change” per l’esportazione dei valori e degli assetti di governo, sta vivendo giorni di resurrezione. Tutti uccidono il nemico, ma una comprensione benevola spetta soltanto a chi brucia le città per diffondere a macchia d’olio la bella democrazia. La Casa Bianca appare completamente impotente dinanzi alle fughe in avanti di Netanyahu, precisamente perché non ha ancora maturato una visione differente dei principi delle relazioni internazionali – non fu d’altronde Obama a inviare agenti della Cia in Pakistan per risolvere con effetti speciali la pratica Bin Laden, ma soprattutto a destabilizzare la Libia, la Siria e infine ad avviare i grandi preparativi in Ucraina?

Oggi emerge il fatto che non solo il declinante comandante in capo Biden, ma anche la sempre sorridente candidata alla successione, lasciano incancrenire le ferite nei molteplici fronti poiché accettano il paradigma, reso celebre dall’amministrazione Bush Jr., delle guerre quale urto irriducibile tra democrazie e autocrazie. E così pure l’esito del duello di novembre torna ad essere assai rischioso. Il tycoon ribelle, che insegue un condono gettante d’un tratto nel dimenticatoio la sua vocazione golpista, è peraltro lui stesso un maestro nella scienza d’impartire istruzioni per l’omicidio mirato: nel 2020, sotto Trump, il più importante generale iraniano fu infatti eliminato da un drone all’aeroporto di Baghdad. In giro a recare danni si muove un miope fondamentalismo democratico, che affida alle armi la soluzione dei dilemmi di un globo via via più disordinato. Le conseguenze politiche della riduzione del pianeta a campo di battaglia sono sin troppo eclatanti: dopo Budapest, Roma, Parigi, Berlino, Vienna, “il partito di Putin”, come qualche commentatore italiano lo chiama, può issare la bandiera autoritaria finanche a Washington.

Se l’America democratica non vuole smettere di essere “la potenza indispensabile” per la governance mondiale, deve strappare le carte incendiarie del trionfante pensiero neocon. Ha senso una sinistra che rinuncia a dichiarare, con le forme del nostro tempo, una netta guerra alla guerra? Oppure che si rifiuta – le ultime prese di posizione della Harris sulla vicenda ucraina sono eloquenti – di ragionare in termini di compromesso col rivale? Il diritto alla vita è il bene primario entro qualsiasi condizione di esistenza, e la difesa del corpo dal pericolo estremo autorizza la mobilitazione più dura contro la follia del potere che persegue l’annichilimento umano. La progettazione di un ordine multipolare richiede un’acuta intelligenza politica la quale, purtroppo, è fuori portata rispetto alla gittata limitata degli apprendisti stregoni che misurano la loro influenza dalla rapidità nel premere il grilletto.

 

Please follow and like us:
Pin Share