Il diario di un soccorritore: quando molti stanno affogando, chi salvi?

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DAL MIO DIARIO DI BORDO

Quando arriviamo di notte al gommone pieno di migranti alla deriva, sul posto c’è ad aspettarci una grande nave cisterna in viaggio dalla Tunisia al sud Italia. Questo è insolito. Negli ultimi anni le compagnie di navigazione hanno cambiato le rotte delle navi mercantili e da crociera dirottate dove c’è minor rischio di dover effettuare soccorsi.

Stavolta invece la nave ha visto e s’è fermata ad aspettarci. Ha aspettato accanto al gommone per ore finché non siamo arrivati ​​lì, di notte. Mi sono retto forte mentre attraversavamo la notte buia. Ancora onde, anche il vento un po’ più forte che a mezzogiorno. Tengo il riflettore in una mano mentre guardiamo il piccolo gommone tenendo la luce fluttuante in mezzo al nulla. Difficile stimare la distanza con un solo punto di luce nell’oscurità completa: all’improvviso il gommone grigio chiaro è lì davanti a noi. E’ pieno di gente, le gambe penzolavano da quelle sedute a cavalcioni dei tubi. Uomini in acqua mentre la barca si inclina e rischia di rovesciarsi ad ogni onda perché è fatta solo di quattro camere d’aria e gomma. Questa volta è stata più difficile: il vento più forte, le condizioni più rudi, le persone più timorose. Per controllare la situazione i nostri due gommoni si mettono uno di fronte all’altro, ai due lati del mezzo in difficoltà. Tutto adesso è come una danza, ogni movimento è significato.

Per prima cosa, non tutti per attirare i rifugiati da una parte e dall’altra per assicurarsi che non ci siano punti ciechi, dove qualcuno potrebbe cadere in acqua. Mentre il leader del rhib (gommone veloce) cerca di attirare l’attenzione di tutti, noi teniamo sotto controllo il linguaggio del corpo e non rispondiamo alle occhiate per non creare confusione. Sono a prua e ho un salvagente pronto in mano. Posso lanciarlo con precisione anche con questo vento? Improbabile. Ascolto le due radio sul giubbotto di salvataggio, illumino la scena dal nostro lato, valuto la disposizione in continua evoluzione delle tre barche, sullo schermo del gommone deve esserci la distanza e la direzione della nave madre e della petroliera. Guardo ogni tanto il cielo in cerca di droni. Cosa sento? Niente. C’è troppo da fare, non mi sento nemmeno molto stressato È già diventato routine o è semplicemente troppo da sentire? Durante l’ultimo viaggio ho sempre provato per prepararmi mentalmente allo scenario peggiore per prepararsi, allo scenario ipotetico di molte persone in acqua, un numero incontrollabilmente elevato di persone sono in acqua.

I colleghi della medicina d’urgenza sanno di cosa parlo: noi medici studiamo per salvare ogni singola vita; lasciare morire l’uno per salvare l’altro è fuori questione. È diverso però quando le risorse sono limitate. Esempio: con due piccole scialuppe di salvataggio e diverse decine di persone in acqua devi applicare il principio de “il meglio per più persone possibile” – un approccio in cui si salvano solo coloro che hanno le migliori possibilità di sopravvivere. In tal caso, spetterebbe a me decidere in qualità di caposquadra della nostra scialuppa di salvataggio chi stiamo cercando di salvare e chi lasciare indietro. Penso ai criteri, ancora. Chi ha un giubbotto di salvataggio arriva per ultimo. Chi è silenzioso probabilmente è già incosciente. Non c’è tempo per i primi soccorsi, quindi passa oltre e salva chiunque stia ancora urlando e spruzzando. E se invece fosse sensato il contrario? Coloro che sono appena diventati silenziosi potrebbero ancora avere una possibilità. Quello che sta ancora scalciando, ha abbastanza forza per i prossimi due minuti?

È difficile per me scrivere queste parole, non voglio scegliere. “Dipende dalla situazione” è una frase comune a bordo, è diventato un mantra utilizzato frequentemente dal nostro coordinatore di ricerca e salvataggio. Quindi mi devo preparare mentalmente: essere pronti a prendere una decisione, per me questo significava non voler salvare l’individuo, ma lasciarlo morire è escluso. Non voglio perdere un istante se mi ci trovo di nuovo. In quel momento devo già essere freddo dentro e pronto, proprio valutando al volo secondo le probabilità di sopravvivenza. Ogni volta mi ci sono voluti giorni per sentirmi di nuovo umano. Mi ricordo esattamente, come avevo notato durante l’ultima missione, che pochi giorni dopo i salvataggi si rimane sorpresi di avere davanti singole persone, con destini, sentimenti e storie individuali.

Non so se questo metodo a cui ho pensato sia stato utile durante la mio prima missione con Sea-Watch tre anni fa. Si era verificata esattamente questa situazione: due delle quattro camere d’aria del gommone, che trasportava 90 persone è scoppiata durante i soccorsi. Riesco a vedere chiaramente gli occhi spalancati dell’adolescente davanti a me che ha cercato di chiudere la fessura con entrambe le mani. Nel giro di pochi minuti, 35 persone erano in acqua, molte senza giubbotto di salvataggio. Abbiamo sprecato 90 secondi preziosi cercando di salvare la madre del bambino che avevamo appena salito a bordo.

“Voglio la madre!” è stato il mio comando al driver del gommone mentre gli mostravo la direzione. Ho pensato che fosse meglio andare lì dove dicevo io. O forse era migliore la decisione opposta, era quello un sentimento primordiale da cui non potevo difendermi? Non lo so e per fortuna non abbiamo dovuto decidere chi salvare. Allora potevamo salvare tutti. Quindi ora sono qui con il salvagente in mano e controllo che tutti ne abbiano uno, ho preso un giubbotto di salvataggio dall’altro motoscafo. La situazione per ora è sotto controllo.

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La notte e le condizioni meteomarine sono impegnative, ma mi sento all’altezza della situazione, la driver sa quello che sta facendo e finora nient’altro è fuori dall’ordinario. I gommoni portano altri pericoli: la gomma è estremamente delicata e le nostre scialuppe di salvataggio hanno proprio nella parte anteriore, sotto la prua, un anello in metallo al quale è agganciato l’indispensabile “Painterline”. Ogni onda ci solleva sicuramente metri sopra il gommone e ci fa ricadere. La driver si avvicina secondo il mio comando, non riesce a trovare la posizione esatta in queste condizioni. Ho qualche secondo per scegliere uno degli uomini da afferrare per trascinarli nel nostro gommone. Tutti sono pronti a saltare, con gli occhi ben aperti, ora non chiama più nessuno. Tutti gli altri a destra e a sinistra devono assolutamente restare seduti. Far sì che si affidino, mantenere la connessione emotiva con loro è tutto.

Ora prendo il prossimo. All’improvviso mentre lo sto già afferrando, il mare inizia a ballare. La driver del nostro gommone da dietro: “Fermati, Fermati, fermati!” – troppo tardi, i movimenti sono già iniziati. La spinta dell’onda ci ha risucchiato all’indietro lontano dal gommone, vedo ancora che si sta aprendo un vuoto. All’improvviso la persona a cui tengo il polso non è più davanti a me, è sotto di me, tra il loro mezzo e il nostro. E io gli tengo ancora il polso. Non ricordo di aver preso nessuna decisione qui, so solo cosa ho fatto: afferro l’altra mano e mi lancio all’indietro nel gommone.

Immagine successiva: giaciamo aggrovigliati l’uno sull’altro nella piccola area davanti alla console di controllo, lo spingo via e mi accovaccio di nuovo velocemente davanti a prua, il secondo collega deve guardare mentre il gommone manovra all’indietro. Quando mi alzo guardo brevemente la mia driver, i nostri occhi si incontrano: non ho mai visto tanto orrore sul suo viso. Tuttavia, non c’è dubbio, so che lei ha se stessa sotto controllo: possiamo lavorare alla grande insieme. La stessa cosa accade poco dopo anche all’altro gommone di salvataggio. Il resto del soccorso procede senza intoppi.

A bordo ci abbracciamo stretti stretti. Breve debriefing alle quattro del mattino, ciascuno ascolta impressioni, osservazioni. Mi sveglio dopo quattro ore di sonno, con il corpo immobile. Ho ancora un’ora a disposizione, quindi faccio qualche esercizio veloce sul ponte, da qualche altra parte nessuno qualcuno fa allungamenti. Meglio. Poi via a mangiare e lavare i piatti. Poi tre ore di turno sul ponte con i sopravvissuti. Alcuni dormono. La sera mi siedo a lungo sulla panchina dietro il ponte e guardo la luce bianca in testa d’albero, in alto contro il buio. Dietro di esso, la falce di luna ondeggia dolcemente nel cielo. Comincio a piangere e non so perché.

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Non so se posso scrivere oggi. Non ho potuto farlo negli ultimi giorni. Tutti erano stanchi, il cielo è nuvoloso attraverso la nebbia. Faccio il mio lavoro, sono più lontano emotivamente rispetto agli ultimi giorni. Sono passati velocemente: domani tutti i sopravvissuti scenderanno a terra. Qui a bordo siamo rimasti permanentemente molto attenti al folto gruppo di persone, per tenere tutto sotto controllo. Gli ultimi anni, in cui spesso si contavano centinaia di sopravvissuti sul ponte, le navi di soccorso sono rimaste al largo delle coste italiane, a volte per settimane, in attesa che gli fosse assegnato un porto: ho dovuto aspettare tanto e ho imparato la lezione. I sopravvissuti si ritrovano in una sorta di limbo, tra l’essere fuggito e allo stesso tempo essere ancora in fuga, non essere ancora arrivato. Non è una buona condizione per la psiche.

Ci assicuriamo che la vita a bordo migliori ogni giorno: dal secondo giorno in poi cerchiamo di proporre un po’ di esercizi fisici al mattino poi, poco a poco, tiriamo fuori i carillon, un tamburo e i colori. C’è ogni giorno un momento informativo in cui si cerca di spiegare diritti e regole in più lingue, si cerca di dare informazioni basiche per loro. Ho la sensazione che molte persone non comprendano e non abbiano idea di cosa accadrà a terra. Neppure io riesco a concentrarmi così a lungo sulle regole del complicato sistema europeo di asilo, anche io faccio fatica a mettere a fuoco il complicato iter. E loro non hanno già tribolato abbastanza? Non sono sfuggiti prima alla morte nel deserto, poi ai lager e poi addirittura sopravvissuti alla deriva nel Mediterraneo? Sì, ma da domani mattina tutto questo non varrà più.

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Trovo sempre difficile condividere l’atmosfera esuberante dell’ultima sera: speranza e la gioia è scritta su molti volti, solo alcuni continuano a fissare il vuoto lontano. Mi siedo in uno dei miei posti preferiti: il portabandiera a prua. Qui è più tranquillo, dietro di me sento solo il motore dei radar, sotto di me battono piano le onde. Anche il linguaggio dei delfini appartiene a questo posto. Guardo il sole al tramonto.

Cosa è importante? Come posso lavorare in questo mondo? A un amico nasce un figlio, muore la fidanzata di una persona cara. Sono qui sulla nave e posso partecipare solo a distanza. Oggi lo sono anch’io solitario, nonostante tutte le persone intorno a me. Molti degli uomini qui rimangono stupiti quando mi chiedono se ho figli, se sono sposato e io rispondo di no. Qualcuno con simpatia desidera che io abbia due gemelli. Ho iniziato a studiare medicina più di dodici anni fa, per molte ragioni. Per molto tempo ho cercato di trovare la leva più efficace per realizzare grandi cose, per rendere tutto un po’ migliore. Ho provato me stesso provato in diversi mestieri, in diversi progetti.

Qui, ho pensato, posso fare un sacco di cose. Posso applicare alle mie capacità quel che ho imparato. Non devo fare tutto da solo qui, sono un ingranaggio della ruota. Sono una tra le persone con ruoli intercambiabili che indossano la giacca con il logo dei soccorritori in mare. Questo è il mio piccolo contributo alla grande politica. Ciò che mi rende felice del mio lavoro è che ne sento gli effetti e li noto sempre di più per quanto piccolo sia il raggio di ciò che posso percepire. Lo posso fare anche al pronto soccorso in cui lavoro a terra? Rendere tutto un po’ migliore? Ci provo, a volte.

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A bordo c’è anche la piccola B., che ha circa tre anni ed è poco più grande del mio figlioccio. Lei è probabilmente una delle creature più dolci del mondo ed è e il sole della nave. E’ una bomba di buon umore. Sua madre è con alcune donne dell’equipaggio nel Women Shelter, unico spazio chiuso per i sopravvissuti e luogo di protezione per bambini e donne. Mi chiedono se posso stare con B., se posso tenerla in braccio. Dovrei tenerla occupata per le prossime ore. Niente di meglio! Troviamo bolle di sapone, gioca con noi un ragazzo del Bangladesh che è bravissimo a interpretare i mostri.

B. parla francese e pensa che tutto sia “beau” – bello. Dopo un po’ che la tengo tra le mie braccia, il timore degli acari della scabbia improvvisamente diventa questione del tutto irrilevante. Sono con lei sul ponte. Il sole mi scalda la schiena, lei guarda oltre la mia spalla, indica: “l’eau!”, l’acqua. Poi sento da lei le prime e uniche frasi complete: “L’eau n’est pas pour les enfants. Ce n’est pas à boire” – “L’acqua non è per bambini. Non si deve bere.” Quanto hai ragione. Le lacrime mi salgono agli occhi

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Ieri, durante il mio turno di guardia sul ponte, ho avuto il tempo di trascorrere un po’ di tempo con i sopravvissuti parlare. Sono momenti per lo più tranquilli, la gente è contenta. Sono seduto a cavalcioni del tavolo sul quale un collega del team di soccorso in mare ha recentemente incastonato una bussola, c’è segnata accanto la direzione della Mecca. I teloni della tenda di plastica sono abbassati sui lati contro il vento, vedo solo un piccolo tratto di mare. In realtà mi sto divertendo. Con la coda dell’occhio vedo qualcosa di piccolo passare. Può essere? All’improvviso in grande allarme, salto su. Radio, subito.

Guardo la vedetta, stiamo ancora facendo i turni col binocolo sul ponte superiore. Quando scruti l’orizzonte con il binocolo, è facile perdere le cose che sono molto vicine. A me è successo lo scorso novembre, per fortuna è arrivato per caso il mio coordinatore Sar. Avvistiamo ad occhio nudo una barca non lontana da noi.

(3-CONTINUA)

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