Chi è Francesco Marini, il candidato di Meloni per la Consulta: perché la premier ha fallito il blitz

RMAG news

Il blitz è fallito, respinto con perdite e figuraccia di una premier che stavolta si è mossa in modo più che goffo e deve incassare una sconfitta tonda. A metà mattinata la maggioranza getta la spugna, prende atto dell’impossibilità di arrivare ai 363 voti, la maggioranza qualificata di tre quinti necessaria per eleggere il giudice della Corte costituzionale vacante da novembre, rinuncia a mettere in campo Francesco Marini, sapendo che servirebbe solo a bruciarlo e decide di votare scheda bianca.

Bastano per una conta pur se approssimativa: sono state 323, 40 in meno del necessario. All’appello mancavano 25 parlamentari della destra, molti dei quali hanno preferito disertare del tutto una votazione inutile. Ma anche se ci fossero stati il traguardo sarebbe rimasto lontano. Ma che fosse inutile giocare col pallottoliere era già chiaro dalla sera precedente. È questo che rende inspiegabile la decisione più dettata da testardaggine che da caparbietà della premier di provare ad andare avanti comunque. I conti da un lato, la situazione politica dall’altro, rendevano la sconfitta già certissima.

Quella di ieri era l’ottava votazione. Nelle prime erano necessari i due terzi, scesi poi a tre quinti. Non ci sono mai stati e sino a pochi giorni fa era dato per scontato che non ci sarebbero stati neanche stavolta. Tutti si aspettavano che la premier rinviasse di conseguenza sino a dicembre, quando saranno in scadenza altri tre giudici costituzionali in modo da trattare sull’intero pacchetto con l’opposizione. Sulla carta, in realtà, ai tre quinti il centrodestra potrebbe anche arrivarci, ma bisognerebbe che i parlamentari fossero proprio tutti presenti: nessun malato, nessun impegno irreversibile, nessun contrattempo. Non capita mai. I conti che a Chigi continuavano inutilmente a fare nella notte tra lunedì e martedì davano sempre lo stesso esito. Nonostante i messaggi ultimativi inviati dai capigruppo e finiti spiattellati sulle colonne del Fatto, nonostante le missioni sospese all’ultimo momento all’appello mancavano ancora 4 presenze senza la quale il quorum era una chimera. Meloni ha deciso di provarci lo stesso ed è andata a sbattere.

 

Il blocco imposto dalle opposizioni

La decisione di tentare la sorte, contro ogni previsione, in questa ottava votazione e poi di insistere invece di prendere atto della realtà aritmetica si spiegano in un modo solo, senza alternative o subordinate. Meloni aveva in tasca l’accordo con una forza di opposizione che, al coperto del voto segreto, avrebbe dovuto far arrivare i voti necessari. Quando è uscita la notizia delle disposizioni tassative impartite dai capigruppo, con tanto di pubblicazione dei messaggini originali il gioco è stato chiaro. Ma la notizia del blitz sarebbe trapelata comunque: solo chi non conosce la permeabilità porosa del Parlamento poteva illudersi che il colpo di mano restasse segreto non per ore ma per giorni. A quel punto la segretaria del Pd ha scelto l’unica contromossa possibile: l’Aventino, il non ingresso in aula, unica garanzia contro le defezioni nel segreto dell’urna. I 5S hanno pensato per un po’ di distinguersi entrando in aula senza ritirare la scheda. Poi hanno seguito anche loro l’ordine di scuderia.

Le voci di Transatlantico, i precedenti e il ragionamento politico convergono nell’indicare proprio nel partito di Conte quello più sospetto di aver stretto il patto con la premier fallito grazie alla scelta aventiniana. “Non possiamo assecondare il blitz e la logica spartitoria della maggioranza”, ha spiegato Conte. In realtà per l’opposizione è un problema anche il nome del candidato, Francesco Saverio Marini, figlio di Annibale Marini, giurista insigne ed ex presidente della Corte costituzionale, oggi consigliere giuridico a palazzo Chigi. Proprio quella collocazione lo rende improponibile per i partiti d’opposizione e in effetti, al di là dei meriti e demeriti del papabile, la sua designazione corrisponde all’abitudine meloniana di puntare sempre sui fedelissimi.

Ma la vera ragione del blocco imposto dalle opposizioni sta tutto nel rifiuto della premier di trattare e mediare anche quando si tratta di istituzioni di garanzia, come la Consulta, e persino quando non può farcela da sola. Il senso del colpo di mano fallito ieri andava quindi oltre il caso specifico. Doveva dimostrare che in un modo o nell’altro la maggioranza può fare da sola anche senza dialogare con la controparte e la smentita è tanto più cocente per questo: nella prossima riunione della Commissione di vigilanza Rai, che dovrebbe eleggere il presidente del cda Rai ma dove di nuovo la maggioranza da sola non ha i numeri, è a questo punto molto difficile che arrivino alla destra voti concordati sottobanco per farcela comunque.

La destra si consola come può, accusando l’opposizione di paralizzare la Consulta dimostrando così scarso senso delle istituzioni. Una di quelle accuse che le parti politiche si rimpallano a seconda di chi è lo sconfitto di turno. A questo punto, pur essendo possibile la convocazione di una nona votazione nelle prossime settimane – sembra probabile che la premier ci riproverà ancora una volta – è possibile che la partita si giocherà tutta a dicembre con un pacchetto di nomine in ballo e con una premier che avrà a quel punto auspicabilmente preso atto del fatto che democrazia non significa onnipotenza della maggioranza.

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