Lo sfregio di Papa Francesco: così Bergoglio calpesta mezzo secolo di femminismo

RMAG news

Ha suscitato scalpore la dichiarazione di papa Bergoglio in Belgio, che ha definito i medici che praticano la interruzione di gravidanza “sicari”. L’Ordine dei Medici di Torino ha inviato al Ministro della Salute, Orazio Schillaci, e al Ministro degli Affari Esteri, Antonio Tajani, una lettera in cui si chiede un passo del governo italiano presso lo Stato di Città del Vaticano “per il marchio di infamia impresso sulla categoria medica,” dalle parole del Pontefice “al limite dell’ingerenza nella legittimità di una norma di legge del nostro stato”. In Belgio, le istituzioni stesse si sono mosse, poiché il premier Alexander De Croo, rispondendo a una interrogazione alla Camera, ha definito le parole del Papa “inaccettabili” e ha annunciato che convocherà il Nunzio Apostolico.

Nella lettera dell’Ordine dei Medici di Torino si ricorda che già nel 2018 i medici erano stati marchiati dal Pontefice con il titolo di “sicari”. La notazione è rilevante: dimostra la pervicacia del pensiero della Chiesa circa il ruolo della dottrina, a guida delle leggi dello Stato, non solo delle coscienze. Non è solo una questione di (insidiata) laicità dello Stato. Ciò che colpisce è la violenza di quel particolare “marchio d’infamia”. Il potere malefico della parola “sicario” balza agli occhi, avendo in mente il tormentato contesto della questione aborto, nel cammino degli ultimi cinquanta anni dalla proibizione alla decriminalizzazione. Io stessa ho visto in America presidi di cristiani fondamentalisti di fronte a un consultorio dove entravano le donne per l’interruzione di gravidanza, muniti di scritte “fermiamo gli assassini”. Qualche anno prima, qualche medico era stato fermato a colpi di fucile.

L’epiteto “sicario” di per sé esprime anche disprezzo perché rimanda all’artefice principale del crimine, il mandante. Chi sono i mandanti? I legislatori che in molti paesi europei a suo tempo hanno cambiato le leggi proibizioniste? Oppure sono le mandanti, le donne che richiedono ai medici l’interruzione volontaria di gravidanza? Oppure ambedue? O forse altri e altre? La domanda non è di poco conto sotto l’aspetto morale, nel contesto della rappresentazione dell’aborto come crimine di omicidio, cara alla Chiesa. Eppure, sembra che la domanda rimanga inevasa, mentre al centro dell’invettiva rimangono i medici non obiettori: nelle cui mani risiede concretamente la possibilità che una legge dello stato sia applicata. Oppure non lo sia. Ed è qui che l’aggressione verbale a quei medici mostra il volto politico, di conflitto di potere.

Non sarà sfuggito che l’attacco ai medici “sicari” è avvenuto in collegamento all’annuncio dell’iter di beatificazione di re Baldovino: fra i suoi meriti, espressamente esaltato dal Papa, l’aver abdicato per il tempo sufficiente a non firmare la legge di decriminalizzazione dell’aborto appena approvata dal parlamento. Un gesto con cui il defunto re dimostrò di “essere un politico coi pantaloni”, dice Bergoglio ai giornalisti (la colorita espressione, di cultura machista, meriterebbe un commento a parte). Dal rifiuto di coscienza del santo in pectore Baldovino all’invettiva contro i medici: i quali potrebbero evitare di diventare “sicari” se solo si astenessero dal praticare quanto richiesto dalla legge. Il che sarebbe possibile, facendo ricorso all’obiezione di coscienza: questa sembra essere l’approdo finale delle parole di Bergoglio. Può l’obiezione di coscienza, da diritto individuale diventare uno strumento di potere – propugnato ed esercitato in via collettiva – per invalidare una legge dello stato? Di nuovo, quella parola “sicari” è eloquente, sotto un diverso aspetto, di incitazione terribile allo scontro di potere. Come dire: questo è l’infame marchio per chi rifiuta di arruolarsi nella santa battaglia contro le leggi che hanno decriminalizzato l’interruzione di gravidanza.  Niente a che fare con la libertà di coscienza di chi non obietta e di chi obietta, e ancora meno col diritto individuale all’obiezione di coscienza.

Quanto a quest’ultimo, va ricordato che il delicato rapporto fra diritto all’obiezione e il diritto riconosciuto dalla legge ha una giustificazione etica nell’equilibrio fra i due diritti, senza sopraffazione dell’uno sull’altro. Come scriveva nel 2012 il Comitato Nazionale per la Bioetica, la tutela dell’obiezione di coscienza, per la sua stessa sostenibilità nell’ordinamento giuridico, non deve limitare, né rendere più gravoso l’esercizio di diritti riconosciuti per legge, né indebolire i vincoli di solidarietà derivanti dalla comune appartenenza al corpo sociale. Se pensiamo all’Italia e alla legge 194, un certo utilizzo dell’obiezione di coscienza ha reso più gravoso, se non in alcuni casi addirittura impedito, il diritto delle donne all’interruzione volontaria di gravidanza: problema manifestatosi fin dall’inizio e che negli anni non ha trovato soluzione. Se ne deduce fra l’altro che solo i famigerati “sicari” sono stati a presidio dei “vincoli di solidarietà” sociale invocati dal CNB.

Le parole del Papa all’Università Cattolica di Lovanio

C’è un’altra puntata del viaggio del Papa, altrettanto significativa, che pure ha riscosso – a torto – minore attenzione: l’incontro/confronto con l’Università Cattolica di Lovanio, a partire dal discorso introduttivo della rettrice, Francoise Smets. In Italia si è genericamente parlato di contestazioni al Papa, l’Avvenire (28 settembre) con più precisione parla di “una lettera di studenti e professori” letta di fronte al Pontefice. Guardando alla stampa belga, l’episodio acquista una diversa coloritura. Smets – si dice- ha esposto al Papa una posizione lungamente preparata, frutto di un processo di discussione fra studenti, ricercatori, professori: si chiede di affrontare le responsabilità storiche della Chiesa nel colonialismo, così come il ruolo della donna nella Chiesa e l’accoglienza alle minoranze di genere, in particolare in merito alla omosessualità. Un documento che peraltro il Papa conosceva da tempo, dunque avrebbe avuto tutto il tempo di rispondere. Il Papa però ha evitato il confronto, che pure gli era stato richiesto con un lavoro di approfondimento e ricerca. E proprio questo può essergli contestato in prima istanza (cfr. Gabriel Ringlets, già professore e vicerettore della stessa Università Cattolica, RTBF Actus, 30 settembre).

Vero è che il Papa qualcosa ha detto in merito alle donne e alla Chiesa, segnalando la necessità di “ritrovare il punto di partenza: chi è la donna e chi è la Chiesa” (Avvenire, cit.). Lasciando da parte la Chiesa, quanto alla donna il Papa afferma: “ciò che è caratteristico della donna, ciò che è femminile, non viene sancito dal consenso o dalle ideologie; la dignità della donna è assicurata da una legge originaria, non scritta sulla carta, ma nella carne”. “Carne” è parola sorprendente, che qui sta a rappresentare il dato biologico di “natura”, in cui il Papa legge la “verità” della differenza di genere, nonché la “verità” della divisione dei ruoli. E poiché quella lettura del genere e dei ruoli è per l’appunto una lettura (ampiamente contestata da movimenti delle donne e non solo da almeno cinquanta anni), la “verità” della divisione dei ruoli si poggia sull’autorità della Chiesa stessa che la proclama, più che sulla “carne” femminile. Un modo dogmatico di affrontare la questione della differenza di genere, che per l’appunto non permette il confronto, avendo bollato tutto ciò che fuoriesce da detta “verità della carne” come ideologia.

Povere donne – mi verrebbe da dire- costrette dal Papa fra “carne” e “ideologie”: neppure menzionando (forse ignorando) la ricerca su di sé, fulcro del femminismo, per ritrovare quell’essere donna, anzi quell’essere donne al plurale, fuori dal potere e dall’ideologia patriarcale. Sui cui fatti e misfatti, compresa la storica riduzione della donna a pura “carne” (da riproduzione), ci sarebbe molto da dire. Ma su cui il Papa tace, preferendo prendersela con la donna “perché è brutto quando vuole fare l’uomo”.

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