Intervista a Fabio Nicolucci: “Israele è instabile e dilaniato, un Paese sulla via del trumpismo”

RMAG news

Se volete capirne di più della guerra in Medio Oriente, fareste bene a leggere un libro prezioso: Israele e il 7 ottobre. Prima/Dopo (Guerini e Associati). L’autore è Fabio Nicolucci, analista strategico, esperto di relazioni internazionali, politica e sicurezza del Medio Oriente. L’Unità l’ha intervistato.

Perché il 7 ottobre 2023 rappresenta uno spartiacque tra il prima e il dopo per Israele e l’intero Medio Oriente?
Che cosa è veramente successo il 7 ottobre 2023? Si tratta del primo attacco subìto, e in modo devastante, sul proprio territorio dal 1948. Quello riconosciuto dalla comunità internazionale e da un voto dell’Onu il 29 Novembre 1947. Il 7 ottobre 2023 succede invece qualcosa di inedito. Un salto di scala nel conflitto, e nello scenario mediorientale. Quello che gli analisti definirebbero un “game changer”, cioè un avvenimento che cambia le regole del gioco. Vecchie certezze vengono spazzate via, il futuro appare inconoscibile e quindi fosco. C’è un prima. E c’è un dopo. E il dopo sembra diventare molto peggio del prima.

Nella determinazione dei devastanti effetti, in termini di morti e rapimenti, pesanti sono state le responsabilità del governo Netanyahu. In cosa s’inverano?
Su questo è incentrato tutto il libro, perché Israele è una democrazia. E il governo ha un ruolo preponderante. Allora lascio la parola a Yaakov Peri, ex Capo dello Shin Bet (il servizio segreto interno di Israele, ndr.), che mi ha concesso una lunga intervista, messa a conclusione del libro. Gli ho chiesto: “Perché Hamas ha deciso di attaccare in quel momento?” la sua risposta è stata: “Ci ha visto deboli. Esposti. Ha visto Israele disunito. Negli ultimi tre anni – il tempo che si pensa Hamas abbia usato per pianificare l’attacco, ndr. – Israele è stato instabile politicamente. L’attuale governo, lo definirei un mucchio di politicanti non molto intelligenti, capitanati da Netanyahu, hanno perso la capacità di controllare il loro governo, e molti ministri israeliani hanno fatto e fanno cose idiote. C‘è un senso di anarchia senza responsabilità, ognuno può fare quello che vuole, e i messianici sono senza freno. E la sicurezza viene dall’unità, se non hai unità di intenti sui fondamentali non puoi avere sicurezza. La maggiore responsabilità è stata del governo.”

In questo scenario di “guerra per sempre”, c’è ancora spazio per una soluzione a due Stati?
Israele è dilaniato. Non è più unito. Da una parte vi è lo Stato sionista, laico, con i suoi apparati di sicurezza, che vuole mantenere Israele democratico e a maggioranza ebraica. Per fare questo occorre fare un compromesso sulla Terra biblica, perché solo così si avrà la sicurezza del Popolo, che è il mandato fondamentale del sionismo. Dall’altra parte vi è l’estrema destra ebraica messianica e suprematista al governo. Per cui l’unico obiettivo è avere tutta la Terra biblica, e alla sicurezza del Popolo ci penserà il Messia. Il problema oggi è che è scorso troppo sangue. Preferisco dunque parlare di “tregua”, o “hudna” (parola araba che significa tregua permanente, ndr.), al momento. Serve separare subito i due contendenti, con forze internazionali di interposizione. Se tutto regge, allora tra due generazioni potremo parlare di pace. Comunque un’entità palestinese, accanto ad Israele, è assolutamente necessaria. Per nome e processo, vedremo.

Esiste da sempre una “questione palestinese”, dibattuta e sezionata all’infinito, ma della “questione israeliana” poco si parla.
La polarizzazione della società israeliana è un processo comune alle società occidentali, ed in particolare a quella americana, come si vede dal fenomeno Trump. La crisi dell’occidente ha infatti due risposte: il tentativo di razionalizzare e comprendere i nuovi perimetri e limiti del proprio agire razionale nel nuovo mondo caotico e anarchico, oppure la caduta nell’irrazionale – no vax, estrema destra, ipernazionalismo – e nella ricerca di complotti e cause esterne che da sole non spiegano nulla, e dunque si precipita in una guerra infinita. In Israele questo avvitamento accelera con la crisi – dopo il grande successo dell’inizio degli anni 2000 – dell’ipernazionalismo sempre più messianico di Netanyahu. Poi la frattura interna esploderà in tutta la sua virulenza con il tentativo di Netanyahu di sconvolgere l’equilibrio tra i poteri, abolendo de facto la possibilità di controllo sulla politica del sistema giudiziario nel 2023. Con la rivolta dell’Israele laica, che è maggioranza del paese. Sono queste le condizioni in cui matura il 7 ottobre. In definitiva, più la società è unita, più è sicura, anche agli occhi dei nemici. La crescente divisione della società israeliana è stata infatti attentamente notata e considerata dagli strateghi di Hamas, Sinwar in primis, nel decidere tempistica e modi dell’attacco.

Non pensa che una delle ragioni per la crescita anche in Italia dell’antisionismo sia nel difendere sempre e comunque lo Stato ebraico anche quando a rappresentarlo politicamente è il peggiore governo della sua storia?
Israele è nato per dare uno Stato agli ebrei. Questo è il sionismo. Dunque, occorre un attento percorrere il confine tra legittime critiche alle politiche dello Stato e quelle alla sua stessa esistenza. L’antisemitismo è infatti un cancro incistito dentro l’occidente, e non da oggi. Ma oggi è esploso in una seconda metastasi dopo quella della Shoà. Le cause sono molteplici e concorrenti. Come per tutti i fenomeni complessi. Ma certo l’innesco di questa seconda recidiva è Il 7 ottobre. Un evento periodizzante. Se ci limitiamo alla pubblica opinione globale, dobbiamo preoccuparci subito delle conseguenze. Perché tra di esse abbiamo un disgustoso e preoccupante rigurgito di antisemitismo. Fondato, come tutti i razzismi, su stereotipi. Per parafrasare le parole del segretario generale dell’Onu Guterres, l’antisemitismo infatti non nasce oggi. Ed è un fenomeno che nasce – come la Shoà – nel continente europeo. Esso è forte e vigoroso perché ha molti fiumi che vi confluiscono. Diversi tra loro per natura e dinamiche, ma tutti generati dalla stessa sorgente di ignoranza sulla natura del popolo ebraico, dello Stato d’Israele e del conflitto israelo- palestinese.

C’è una declinazione storica dell’antisemitismo…
Storicamente, il primo antisemitismo moderno è quello che esplode con la Shoà. Esso dipinge la minoranza degli ebrei come in realtà un’élite ricca e parassitaria, da punire in nome del proprio popolo ingiustamente derubato. In origine esclusivamente a radice di destra e nazi-fascista, adesso tale stereotipo è penetrato anche in frange anticapitaliste e antisistema – o supposte tali – della sinistra occidentale. Diverso è il neo-antisemitismo della sinistra estrema europea. Esso, meno olezzante solo per il fatto che è estraneo alla Shoà, non è meno contagioso. Anzi forse lo è di più proprio perché non appesantito dal suo tabù. Questo antisemitismo con radici nell’antioccidentalismo – dunque antiamericanismo, essendo il Novecento “secolo americano” – nasce dall’avversione allo Stato di Israele, dipinto solo come alleato degli Usa. È antisionismo. E l’antisionismo è una giovanile ma virulenta forma di antisemitismo. Poi abbiamo una terza e più blanda, ma anche più larga, forma di antisemitismo “a soffietto” nella pubblica opinione occidentale democratica che si interessa del conflitto solo quando esso va sulle prime pagine. Essa nasce da una visione stereotipata di Israele come solo “aggressore”, perché parte più forte, per identificarsi così tout court con la “vittima”, la parte più debole, indubitabilmente i palestinesi. Una forma che prende vigore sempre quando Israele usa la forza, sia a ragione per difendersi, sia a torto per impedire uno Stato palestinese. Mentre le altre due forme sono per lo più statiche, questa è dinamica. La sua portata dipende molto infatti da come viene percepito il conflitto e da chi sarebbe la vittima. Questa forma di antisemitismo è dunque prettamente politica più che storica. Non aiuta purtroppo a combatterlo la destra israeliana ed ebraica vicina a Netanyahu, anzi ne agevola la diffusione, quando non sceglie – anche per opportunismo – tra due registri di narrative che sono invece alternative.

Quali sono queste narrative?
La prima vede Israele solo in rapporto ai palestinesi, dove il monopolio della forza militare viene tradotto in un silenziare le critiche. La seconda riguarda Israele nel mondo, e dunque lo raffigura assediato e piccolo. Come se Israele fosse solo la vittima, e gli ebrei nel mondo una minoranza oppressa e indifesa come prima dell’esistenza dello Stato di Israele. Uno dei modi più efficaci di combattere questa forma dinamica di antisemitismo è dunque un ritorno al principio di realtà. Che è sempre differenziata, e mai stereotipata. Una guerra ai terroristi distingue, una generica guerra al Terrorismo – la stessa che Biden ha fortemente suggerito di non emulare per gli errori analitici che conteneva – schiaccia invece sugli stereotipi. Sono due approcci radicalmente diversi. Dunque, di fronte ad Israele vi è innanzitutto la scelta di quale visione adottare, da cui discende poi il tipo di guerra difensiva da intraprendere. Da cui discenderà poi il tipo di dopoguerra che sarà, perché come nel film Sliding doors, scegliere una strada preclude alcuni scenari e ne rende possibili altri.

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