Omicidio Bergamini, Facciolla: «Cercare nell’area grigia intorno alla squadra»

Omicidio Bergamini, Facciolla: «Cercare nell’area grigia intorno alla squadra»

Il Quotidiano del Sud
Omicidio Bergamini, Facciolla: «Cercare nell’area grigia intorno alla squadra»

Il procuratore Facciolla che riaprì il caso dell’omicidio Bergamini: «Riesumammo il cadavere: era perfettamente conservato. Sembrava ci aspettasse. Arrivammo alla conclusione che era stato ucciso»

«Quando, l’11 luglio del 2017, riesumammo la salma di Denis Bergamini ci trovammo davanti a un corpo praticamente intatto. Sembrava che, dopo quasi 28 anni, ci stesse aspettando. Una dottoressa nominata dal Gip, restò a bocca aperta: “Per me è stato un segnale fortissimo” disse poi in udienza».

Il magistrato Eugenio Facciolla, nel 2017, era da un anno e mezzo procuratore capo a Castrovillari. Il caso Bergamini, stella del Cosenza, morto il 18 novembre del 1989 a Roseto Capo Spulico sulla Statale 106 apparentemente investito da un camion, se lo trovò praticamente buttato sulla scrivania sotto forma di un decreto di archiviazione in seguito a una richiesta fatta molti mesi prima dal suo predecessore. Facciolla ci mise il naso dentro e decise di indagare.

Si può dire che, se questa storia la settimana scorsa è arrivata a sentenza, lo si deve a quella decisione. Quello che, nel decreto di archiviazione, era un suicidio adesso, per il tribunale di Cosenza, è diventato un omicidio. E Isabella Internò, 55 anni, allora ex fidanzata appena ventenne del calciatore, è stata condannata a 16 anni per concorso nel delitto. Mancano, dunque, all’appello le persone che avrebbero materialmente ucciso Bergamini, con l’aiuto o su mandato della donna.

Il tribunale ha rinviato alla Procura gli atti relativi a sei soggetti che avrebbero reso falsa testimonianza nel processo: Concetta Tenuta (madre di Isabella Internò), Assunta Trezzi (madre di Dino Pippo e Roberto Internò, cugini di Isabella), Dino Pippo Internò, Michelina Mazzuca (moglie di Roberto Internò), Luigi D’Ambrosio e Raffaele Pisano (autista del camion sotto le cui ruote fu trovato il corpo di Bergamini).

OMICIDIO BERGAMINI, LA RICOSTRUZIONE DI FACCIOLLA

Una sentenza che lascia dunque aperte diverse questioni. A cominciare dal movente: passionale? Economico? Insieme di diversi moventi? Al dottor Facciolla abbiamo chiesto di aiutarci a capire e lui ha accettato di buon grado. Dal 2019 non si è più occupato del caso Bergamini e l’inchiesta è andata avanti, ma il suo punto di vista, rispettoso delle ulteriori indagini, è di grande interesse. In questa intervista, non ci ha fornito giudizi sulla sentenza (anche perché si attendono le motivazioni) ma ha provato a delineare i fatti, a ritornare sui dubbi, a definire un terreno “grigio” tra la squadra del Cosenza, la città e alcuni personaggi poco raccomandabili che giravano intorno alla società e ai giocatori. Lì, forse, potrebbero trovarsi motivazioni un po’ diverse da quelle meramente passionali.

E ci ha parlato di Francesco Forte, un autista che era in coda dietro al camion “investitore”, che è stato sentito anche in questo processo, nel novembre 2022. Secondo Facciolla, Forte ha sempre avuto paura e, probabilmente, dice meno di quello che sa. Da Forte, però, viene la testimonianza su due uomini che erano vicini al punto dell’incidente e cercavano di calmare Isabella Internò che urlava terrorizzata. I due, a un certo punto, secondo Forte, caricarono di forza la donna sull’auto nera e partirono in direzione di Cosenza.
Questi e altri elementi delle indagini sull’omicidio Bergamini sono l’oggetto di questa intervista a Eugenio Facciolla. E ruotano intorno ad alcune domande: chi erano i due uomini? Perché Isabella Internò, per prima cosa, chiamò il Motel Agip e chiese di parlare col presidente Antonio Serra? Cosa succedeva nella zona grigia intorno al Cosenza Calcio controllata da Antonio Paese?

Dottor Facciolla, lei arriva nella Procura di Castrovillari come procuratore Capo nel novembre del 2015, cosa trova su questa vicenda che diventerà il caso dell’omicidio Bergamini?

«Nulla di particolare. Ma, dopo una decina di giorni, mi arrivò nella posta il decreto di archiviazione emesso dal Gip sul caso Bergamini. La richiesta di archiviazione risaliva addirittura al dicembre 2014, più di un anno prima. Mi parve strano, anche per la lunghezza: più di trenta pagine. Di solito se si archivia una morte come suicidio, basta molto meno. Decisi di guardarci dentro: alcuni passaggi delle motivazioni non mi convincevano, soprattutto dal punto di vista medico legale. E c’era anche molta pressione mediatica. Stampa e tv che non credevano alla versione del suicidio».

A questo punto, cosa succede?

«Mi cerca il legale della famiglia Bergamini e mi chiede di approfondire. Avevano sentito un luminare come il professor Vittorio Fineschi che aveva suggerito nuovi accertamenti tanatologici. Chiamo il mio consulente di fiducia, Aldo Barbaro, che si era occupato di decine e decine di cadaveri durante le guerre di mafia a Reggio Calabria. Barbaro prese le carte e mi portò una relazione preliminare che suggeriva la riesumazione: “Magari – disse – troviamo qualche osso che ci permette di fare accertamenti biologici che a quei tempi non si facevano”».

Così decidete di riaprire le indagini…

«Sì. E parte la richiesta di riapertura delle indagini. Il legale della difesa chiese l’incidente probatorio. Così si procedette alla riesumazione della salma di Bergamini per accertare la verità. Ci volevano prove dirimenti, altrimenti la questione si sarebbe chiusa».

Dunque, l’11 luglio del 2017, si procede alla riesumazione della salma di Denis Bergamini nel cimitero di Boccaleone di Argenta a Ferrara.

«Davanti ai nostri occhi stupiti c’era un corpo perfettamente conservato, “cuoioficato”. Un’immagine toccante: la testa verso l’alto, la bocca aperta come per fame d’aria. Sembrava davvero morto per soffocamento piuttosto che per l’impatto e il trascinamento di un camion. E poi mesi dopo, arrivarono i risultati: nessun danno da investimento né segni di trascinamento. Bergamini era già morto quando finì, parzialmente, sotto il camion. Né c’era stata quella corsa verso la strada per buttarsi sotto. Smentite totalmente le versioni di Isabella Internò e del camionista. Qualcuno lo aveva adagiato sotto il camion già morto o moribondo».

E ci fu anche l’esame della glicoforina

«Certo. Quello permise di accertare che c’era stata un’asfissia meccanica causata da un mezzo di strangolamento soft: una sciarpa? La cintura di sicurezza di un’auto? Un sacchetto di cellophan? A quel punto era giocoforza riprendere le indagini: il suicidio non era più sul tavolo. Eravamo davanti a un omicidio e dovevamo rifare tutto per capire chi e perché lo aveva ucciso. La cosa destò scalpore e, forse, non piacque a tutti. A un certo punto, la Procura Generale della Cassazione, con tempismo sorprendente (pare ci fossero state interrogazioni parlamentari) ci chiese chiarimenti perché si parlava troppo con la stampa. Rispondemmo che la città intera ne parlava. Sul web c’era di tutto tranne mie dichiarazioni».

A quel punto siete ripartiti con l’inchiesta e gli interrogatori…

«Sentimmo circa 250 persone, molte già ascoltate. Misi a lavorare agenti che non avevano mai avuto a che fare col caso in modo che non avessero preconcetti e condizionamenti. Gli dicevo: voi non sapete nulla; è come se Bergamini fosse morto ieri. Incontrammo resistenze e reticenza. Nessuno sapeva e pochi ricordavano. Ma ebbi la sensazione che, a 28 anni di distanza, ci fosse ancora una sorta di paura».

Come se l’è spiegata?

«Nell’89, quando Bergamini venne ucciso, era in corso la terza guerra di ‘ndrangheta che si consumò dopo l’omicidio del direttore del carcere di Cosenza, Sergio Cosmai. Si poteva pensare che la gente, anche a distanza di 28 anni fosse ancora condizionata? Possibile. Quindi decidemmo di passare al setaccio tutti i pentiti delle cosche cosentine. Obiettivamente, non trovammo nulla. Ci dissero che non avevano mai sentito parlare dell’omicidio di Bergamini come di una storia di mafia. E poi, perché la mafia avrebbe dovuto inscenare un incidente stradale a Roseto Capo Spulico?»

E quindi? Si è anche parlato dell’influenza che sul Cosenza aveva Antonio Paese, uno che si occupava soprattutto di gioco d’azzardo e che è stato ucciso qualche anno dopo per apparenti motivi passionali…

«L’influenza c’era. Paese gestiva questioni come i parcheggi dello stadio, bar, bigliettazione e, soprattutto, aveva questa sala giochi in via Panebianco, una specie di fortino del suo gruppo. I giocatori del Cosenza la frequentavano quasi tutti i giorni per giocare a biliardo, come frequentavano il negozio di abbigliamento sportivo della sorella di Paese. In questo ambiente “di confine” possono essere successe delle cose come la vendita di partite o giri di scommesse, ma siamo arrivati alla conclusione che non è possibile che la ‘ndrangheta abbia deciso di uccidere Bergamini per colpire Paese.
Le indagini hanno dimostrato che questa cosa proprio non è successa. Ci sono stati alcuni episodi relativi, ad esempio, a una partita con l’Avellino (ne parlò il collaboratore di giustizia Franco Pino nel 1996) che il Cosenza non poteva perdere. Gli irpini avevano un attaccante molto forte che si chiamava Amodeo. Alcune persone poco raccomandabili furono mandate in tribuna a sedersi vicino ai parenti di Amodeo facendosi notare. Quel giorno il bomber giocò molto sotto tono e la partita finì in pareggio.
Ma anche episodi come questo significano al massimo contiguità di alcuni ambienti, non una situazione tale da portare a uccidere il miglior giocatore del Cosenza. Anzi, è emerso il contrario: la storia di un ragazzo che si era accorto che alcune cose non funzionavano nella squadra. Alcune amiche del Nord ce lo descrissero come un po’ disamorato. In altri casi si parlò di un Bergamini arrabbiatissimo che si scagliava (anche in partita) contro alcuni compagni che s’impegnavano poco».

Torniamo all’indagine sul giorno della morte. I Ris di Parma, già prima della richiesta di archiviazione per suicidio avevano sentenziato che il corpo non era stato trascinato dal camion ma era stato come “posato” sotto l’automezzo. Eppure non erano bastato.

«Le prime indagini, certamente, non furono accurate. Tutti pensavano al suicidio e si comportavano di conseguenza. Il medico legale che scrisse a referto che si trattava di un suicidio e che Bergamini era stato travolto dal camion, mi confessò più tardi di non aver neppure toccato il corpo: “Era la prima volta che vedevo un cadavere, dottore…” mi confessò candidamente. Poi c’era la questione del sangue sul predellino di destra del camion rilevato attraverso le foto scattate sul posto da un bravo fotografo. Arrivammo alla conclusione che l’autista (a differenza di quanto dichiarato) era sceso dal camion, si era avvicinato al corpo di Bergamini che era davanti al mezzo e, poi, era risalito sporcando di sangue il predellino. E poi c’era la testimonianza di Forte…»

Chi era questo Forte?

«Francesco Forte era un personaggio sui generis che compare sulla scena da subito, ma nessuno dà atto della sua presenza e non figura da nessuna parte. Viene lasciato andare dai carabinieri perché, col suo mezzo, era più indietro rispetto al camion “investitore”. Il suo nome torna a galla perché una sua parente ne parla telefonando a “Chi l’ha visto”. Noi lo rintracciammo e lo sentimmo. Quando lo convocammo era decisamente terrorizzato nonostante fossero passati quasi trent’anni. Ripeteva di avere paura senza però specificare di chi o di che cosa.
Ancora oggi non capisco perché. Anche lui faceva l’autista di camion e aveva portato il pullman del Cosenza (anche se, forse, non aveva la patente adatta). Quella sera era nella fila dietro il camion guidato da Raffaele Pisano sotto le cui ruote finì il corpo di Bergamini. Poco prima si era fermato e aveva fatto passare altri mezzi perché c’era un posto di blocco e a lui non piacevano i controlli di polizia forse perché non era mai del tutto in regola.
Forte, comunque, descrisse la scena nei particolari. Lui (l’interrogatorio fu faticosissimo perché non spiccicava quasi parola) si avvicina e vede Pisano al posto di guida che grida: “Non l’ho visto, non l’ho visto… Si è buttato”. Forte quasi inciampa nel cadavere e vede le macchie di sangue sul predellino del camion segno che Pisano era già sceso e risalito. Dalla sua testimonianza emerge una cosa molto importante: la presenza di una macchina nera sul luogo dell’incidente e di due persone (“due energumeni”, dice) che prendono Isabella Internò che grida come impazzita e la caricano di forza sull’auto. Forte chiede alla ragazza se ha bisogno di aiuto. I due gli rispondono bruscamente di non preoccuparsi, di farsi i fatti suoi e di andarsene. Insomma, in base alla testimonianza di Forte si capì che i fatti raccontati dai presenti, nell’inchiesta generica condotta sul posto, erano completamente diversi dalla realtà».

Cioè?

«Il camionista Pisano racconta che quando iniziò la salita a circa 30 km/h, vede i fari dell’auto di Bergamini rivolta verso il mare e poi la sagoma di un uomo che comincia a correre e si butta sotto il camion. Isabella Internò descrive, invece, la macchina ferma sul ciglio della strada vicino al guardarail (in realtà era molto più distante). Il racconto di Pisano, dunque, non era attendibile. Per esempio, non ha mai detto di essere sceso.
Il corpo di Bergamini era stato sormontato dal camion solo parzialmente. Dal cronotachigrafo risultano diverse discrepanze sul percorso e sugli orari in cui si sono svolti i fatti. Forte racconta una scena completamente diversa e introduce i due “energumeni” che trascinano via Isabella Internò sulla macchina nera. Isabella rispunterà poco più tardi e a qualche chilometro di distanza in un bar da cui, agitatissima, chiama il Motel Agip di Cosenza dove la squadra è in ritiro e parla con il presidente».

Vediamo di tirare qualche prima conclusione. Dottor Facciolla, secondo il suo racconto, quello di Bergamini è sicuramente un omicidio (del resto anche il tribunale è arrivato a questa conclusione), ma le cosche non c’entrano. L’altro giorno, parlandone al telefono, lei mi ha detto che in tanti anni di esperienza in Calabria, non ha mai visto uccidere qualcuno per meri motivi passionali. Quindi, abbiamo un omicidio, ma se non è questione di cuore, Isabella Internò dovrebbe entrarci fino a un certo punto. Alla fine, lei che idea si è fatto?

«Per forza di cose, io devo fermarmi alla mia attività investigativa e rispetto la sentenza attuale. Il mio convincimento è che c’è un contesto un po’ più ampio che, mi auguro (vista la trasmissione degli atti in Procura) possa essere adesso ricostruito. Quel contesto più ampio vede in qualche modo interagire persone che, finora, non sono emerse o comunque sono emerse solo in parte e magari quelle stesse persone, forse, non avevano interesse comunque che si accertasse la verità fino in fondo. Chi sono? Mah, persone che potevano trarre giovamento da una verità parziale. E quando alla famiglia arriva la proposta di incassare i soldi dell’assicurazione anche se si era trattato di un suicidio, evidentemente si va in quella direzione. Ma il padre Domizio e la sorella Debora hanno tenuto duro per tutti questi anni».

Torniamo al punto. Se escludiamo la ‘ndrangheta e i motivi passionali, dottor Facciolla quale altra ipotesi resta sull’omicidio, visto che l’omicidio di Bergamini è certo?

«Ragionando per ipotesi, Bergamini potrebbe essere diventato pericoloso perché in qualche modo era venuto a conoscenza di fatti e situazioni che accadevano all’interno della squadra, all’interno dell’attività sportiva. E se Bergamini era ritenuto in qualche modo un elemento di disturbo alle attività in questione, allora è chiaro che il campo dei moventi si allarga a quel mondo che, dopo la sua morte, mostra di non volere la verità e preferisce la tesi del suicidio. Nei minuti successivi alla morte di Bergamini accadono alcune cose: Isabella Internò, scesa dalla macchina nera, si fa dare un passaggio da un’automobilista (lo implora gridando: “Il mio ragazzo si è ucciso”) e si fa a portare a un bar poco distante. La Maserati di Bergamini, per quanto si sa, resta sul posto.
Dal bar non telefona alla famiglia di Bergamini, ma chiama il Motel Agip di Cosenza dove la squadra è in ritiro e chiede di parlare con il presidente. A lui dice che Bergamini si è suicidato buttandosi sotto un camion. Poi c’è una seconda telefonata con Marino, uno dei giocatori. Più tardi, una riunione con il vertice della società. E va anche notato che, da quando Bergamini se n’era andato dal cinema, nessuno dei compagni di squadra, nonostante fossero passate alcune ore, l’aveva cercato».

Quindi, dottor Facciolla, l’omicidio Bergamini potrebbe essere nato in un’area tra la squadra e il mondo che girava intorno al Cosenza?

«Il mio convincimento è che ci sono motivazioni concorrenti: non necessariamente una esclude l’altra. Il ruolo della ragazza è fondamentale per far sì che lui esca dal cinema e vada a Roseto Capo Spulico. Isabella Internò è stata condannata per concorso con gli ignoti. Gli ignoti non potevano essere passati per caso da Roseto Capo Spulico. Quindi fu la ragazza a portare Bergamini all’incontro con queste persone. E questo trova un riscontro importante nel racconto di Forte. Cosa ci facevano i due amici di Isabella con la macchina nera sul luogo della morte “improvvisa e inaspettata” di Bergamini?»

Questi ignoti, dunque, non sono uomini delle cosche. A chi e a che mondo possono far capo? Quelle attività che Bergamini aveva scoperto e osteggiato potevano ricondursi anche a traffico di droga?

«Non abbiamo mai avuto conferme in questo senso. Penso più alla gestione delle partite, alle scommesse. Un po’ per fare un paragone, qualcosa di simile (in contesti molto diversi) a quello che si è scoperto oggi accadere nelle curve di Inter e Milan. Nel caso del Cosenza, escluderei le curve dei tifosi. Il riferimento è più a queste persone che gestivano i parcheggi e le altre attività di contorno allo stadio e alla vita della squadra. Attività che ricadevano sotto l’attenzione di Antonio Paese. Pensi che quando Paese era al confino in Sicilia, in provincia di Messina, se la squadra andava a giocare sull’isola, i giocatori, o almeno una parte di essi, dovevano andare a rendergli omaggio. Paese è morto nel 1991, ucciso, apparentemente per aver fatto delle avances alla figlia di un suo dipendente. Ma quello fu un omicidio “tollerato” dalle cosche…»

Possiamo dunque immaginare un’area grigia tra le cosche e la squadra in cui Paese ha un ruolo di comando: organizza, fa, guadagna con l’aiuto o la “disattenzione” di giocatori e dirigenti?

«Direi proprio di sì. E più che immaginarlo, direi che era uno spazio concreto. L’esempio più calzante è quello della Maserati. I collaboratori di giustizia hanno detto concordemente che la Maserati era di Paese ma che la fecero comprare a Bergamini, tramite il cognato di Paese, per una cifra molto più bassa di quanto era costata. La macchina era stata chiesta da Paese a un concessionario locale che non l’aveva ma dovette procurarsela a Messina. Dopo qualche mese, Paese la cede a Bergamini contro un pagamento in contanti: Bergamini fu praticamente accompagnato in banca a prendere i soldi. Il mio convincimento è che la macchina era stata estorta al concessionario e che, cedendola a Bergamini, recuperano la cifra dell’estorsione.
Attraverso questa macchina volevano legare Bergamini a quel contesto. Forse anche per questo, in quei giorni, Bergamini era molto preoccupato (ne parlò col padre dopo una telefonata: “in Calabria c’è gente che mi vuol male”) e quella sera avrebbe detto a Isabella Internò che voleva scappare alle Hawaii e che poteva tenersi la Maserati perché lui, andava a Taranto a prendere una nave. Probabilmente non è vero, però, ci sta come clima. Teniamo conto che la loro relazione era finita da tempo e che l’aborto in Inghilterra c’era stato diversi mesi prima quando era ancora minorenne».

OMICIDIO BERGAMINI, UNA IPOTESI DOPO LA “RICOSTRUZIONE FACCIOLLA”

Fin qui il racconto del dottor Eugenio Facciolla. Proviamo a ricostruire e a “creare” una nostra ipotesi. Bergamini, negli ultimi tempi era arrabbiato perché vedeva intorno a sé cose che non andavano. L’”area grigia” intorno alla squadra che fa capo a Antonio Paese, cerca di rabbonirlo e di legarlo a sé anche con la Maserati, ma lui resta riluttante e continua a respingere questo tipo di cose e a battersi per cambiare l’ambiente della squadra. La sera della morte, su invito di Isabella Internò, lascia la squadra al cinema, prende la Maserati e va a Roseto Capo Spulico. Qui è possibile che Denis e Isabella incontrino i due tipi della macchina nera.

Salgono sull’auto per discutere di qualcosa e li, addirittura (non lo diciamo solo noi ma ci sarebbero aspetti medico legali in questo senso) potrebbe essere stato ucciso con una sciarpa o una cintura di sicurezza. Potrebbe anche darsi che gli assassini e Isabella non fossero d’accordo di ucciderlo e che lei sia stata “usata” per attirarlo in una trappola. E potrebbe anche essere che volessero solo spaventarlo e che la cosa abbia preso la mano. Chi sono i due tipi? Forse qualcuno che è già nel processo o forse qualcuno che non c’è mai entrato.

LE MOTIVAZIONI DELL’OMICIDIO BERGAMINI E L’AREA GRIGIA DI CUI PARLA FACCIOLLA

Motivazioni? Da cercare in quell’area grigia di cui Facciolla ci ha detto abbondantemente. Motivazioni che potrebbero aver trovato sponda nella rabbia di Isabella? Questo è quello che dice la sentenza. Noi non ne siamo molto convinti e pensiamo che sia giusto scavare in tutte le direzioni. Comprese quelle che la stessa sentenza ha indicato e che potrebbero far rivolgere l’attenzione degli inquirenti nei confronti di alcune persone nell’ambito familiare di Isabella Internò. Lei, condannata a 16 anni, continua a parlare di suicidio quando l’omicidio è ormai certo. Perché?

Il Quotidiano del Sud.
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