Aborto, l’odissea per la pillola e il diritto di una donna torturato dei medici obiettori: “Signora, ma lei questo figlio lo voleva?”

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Primi giorni di febbraio. La mia gravidanza inizia con un test positivo, con le betaHCG ogni due giorni che crescono. Ma la prima ecografia positiva non è. E’ il giorno della Festa della Donna, un venerdì, in una Roma caotica e trafficata, io e il mio compagno, entriamo in ambulatorio per la seconda ecografia, che purtroppo è una conferma della prima: il battito ancora assente e l’embrione che in fase gestazionale dovrebbe crescere 1 mm al giorno è cresciuto in 8 giorni 1 solo mm. Mi siedo, trattengo a fatica il pianto e inizio a chiedere spiegazioni. Il mio ginecologo è un uomo avanti con gli anni ed è tra le persone più rassicuranti che io conosca. Due sono le persone che solo guardandole negli occhi rallentano il mio battito cardiaco: il mio ginecologo e il mio compagno. Quando il ginecologo mi ha detto che la gravidanza probabilmente non sarebbe proseguita, l’ansia e l’angoscia hanno preso il sopravvento, insieme a un’infinità di domande, tra cui “quando e come finirà”.

Usciamo dallo studio, siamo in fila sul raccordo, dobbiamo andare a riprendere nostro figlio dai nonni. I miei genitori ci rassicurano, ci abbracciano, ma io cerco solo il conforto di mio figlio e tra le sue piccole braccia e i suoi dolci baci trovo per qualche istante un po’ di serenità. Torniamo a casa e vengo sommersa della routine della sera e quando finalmente mio figlio dorme, mi soffermo a guardarlo e risuona nella mia testa la frase “in una settimana è cresciuto 1 solo mm”. Inizio a pensare “è così grave?”potrebbe aver rallentato la crescita e recuperare la prossima settimana?” La tentazione è troppa, non resisto: apro il computer e inizio compulsivamente a cercare “crescita embrione primo trimestre”. E’ notte fonda ormai, io sono stremata, mi scoppia la testa, più leggo più capisco che ci sono dei seri problemi. Sono all’ottava settimana e prima della decima non posso fare nessun controllo genetico. È passata un’altra settimana ed è stata durissima, ho continuato a documentarmi sulle anomalie cromosomiche/genetiche e le speranze sono ormai vane. È venerdì ripeto le betaHCG: sono cresciute pochissimo. Mi chiudo in camera e decido di chiamare comunque il ginecologo, sapevo che era finita, ma avevo bisogno che una persona autorevole me lo dicesse: “hai avuto un aborto”. È quello che mi aspettavo e forse speravo, ma non pensavo sarebbe arrivato così presto. Dopo qualche giorno, sono nuovamente nel suo studio, questa volta vado da sola, il mio compagno è partito per lavoro, mia madre è con mio figlio e io sto, tutto sommato, bene.

Quando sai che qualcosa è destinato a finire, vuoi che quella cosa finisca il prima possibile. Quindi per me è stata una liberazione, seppur dolorosa. Il ginecologo mi fa l’ecografia: che tenerezza quell’esserino così piccolo, inerme, indifeso, ad un certo punto però, mi sembra di vedere il battito del cuore. Il ginecologo mi conferma che non c’è attività cardiaca. Quello sfarfallamento che vedo è un movimento riprodotto dalla sonda dell’ecografo. L’embrione si è già parzialmente riassorbito, la camera gestazionale, il sacco vitellino etc. sono invece intatti. Stavolta è veramente finita. Il mio ginecologo si siede e inizia a scrivere “certifico che la signora xx xx ha avuto un aborto ritenuto alla VII settimana di gravidanza” allega le betaHCG e le tre ecografie che evidenziano l’iniziale anomalia della crescita embrionale, nonché la decrescita dovuta all’aborto. Mi consegna la documentazione e gli chiedo se è possibile che abbia dei problemi, delle resistenze da parte del personale sanitario che dovrebbe farmi abortire. Lui alza le spalle e aggiunge “dipende chi incontri”, potrebbero contestare le ecografie sostenendo che le immagini ecografiche appartengono ad un’altra donna. Qui inizia la violenza che non mi sarei mai aspettata di subire perché avendo avuto un aborto spontaneo non avrei mai pensato di dovermi scontrare con i medici obiettori. Il consultorio vicino casa, tantissimi anni fa feci tirocinio lì: è un consultorio familiare di periferia. Mi viene incontro una donna con un camice bianco non so se sia un’ostetrica o un’infermiera, ma è così gentile e accogliente che scoppio in un pianto liberatorio. Mi prende teneramente sottobraccio e mi accompagna in una stanza, riesco a raccontarle quello che mi successo e le chiedo la pillola RU486. A questo punto, chiama l’ostetrica, la stessa che mi aveva seguito più di due anni fa per l’allattamento di mio figlio. È una giovane donna, madre, che si barcamena tra due consultori dove si occupa egregiamente, per un numerosissimo bacino di utenza di sostegno all’allattamento, corsi di preparazione al parto, pap test, riabilitazione e valutazione del pavimento pelvico (argomento di cui in questo piccolo e misero Paese non si parla mai) e anche di interruzione volontaria di gravidanza.

Mi spiega che per l’aborto spontaneo devo andare in ospedale, che purtroppo lei non può aiutarmi. Prima di andar via mi dicono che possono offrirmi il sostegno psicologico, ma l’aiuto di cui ho bisogno è quello che ho chiaramente espresso. Rientro in macchina un po’ sconfortata, neanche arrabbiata, non potevo di certo prendermela con quell’ostetrica carica di lavoro che, probabilmente, stava applicando disposizioni prese dall’alto. Ospedale San Camillo è stato l’ospedale dove ho partorito nel 2021, del quale conservo un bellissimo ricordo. Suono al campanello e mi apre un ostetrico che appena sente la parola aborto mi interrompe: “Non è qua che deve venire, vada all’edificio accanto, trova un cartello con una freccia, lo segua: quello è il posto riservato”. Mi avvicino al cartello “Ambulatorio I.V.G. (legge 194)” c’è una freccia che indica il sottoscala, il sottoscala di un prestigioso ospedale romano. Entro in questa grande stanza, in sala d’attesa ci saranno state almeno una decina di donne, hanno in mano una cartellina o dei documenti, anch’io ho i miei e li stringo forte. Non mi siedo, rimango in piedi in attesa che qualcuno mi noti e si avvicini. Mi faccio coraggio, busso alla porta. Qui il trattamento è come all’ufficio postale: “Oggi non se ne parla, venga domattina, dalle 7,00 si metta in fila, prende il numeretto e le diamo appuntamento per lunedì o martedì in base all’agenda, arrivederci”. Torno in macchina, non voglio più aspettare. Decidiamo di andare al S. Eugenio.

Entro al Pronto Soccorso e si avvicina uno degli addetti alla sicurezza mi chiede cosa io debba fare. Un po’ in imbarazzo, cercando di non farmi sentire, glielo spiego. L’uomo in divisa non commenta, si limita ad invitarmi a compilare un foglio per l’accettazione e a mettermi in fila. Così faccio. Il desk dove si trovano le infermiere è separato da un vetro, intorno c’è confusione, tra ambulanze, le persone in sala d’attesa. Tocca a me. “Mi dica?” “Buongiorno, ho avuto un aborto spontaneo, ho tutta la documentazione, mi occorre la pillola RU846”. L’infermiera mi guarda interdetta, mi chiede di aspettare, si alza va dalla collega, parlottano, mi indica, dopodiché mi invita ad affacciarmi allo sportello. Mi fa parlare con la collega e mi dice non è qui, provi a salire al primo piano che c’è il reparto di Ostetricia. Salgo le scale, mi ritrovo in sala d’attesa con donne in gravidanza e bambini appena nati. Il luogo ideale se devi abortire. Suono al citofono. Si affacciano un paio di medici o forse ostetrici ai quali nuovamente ripeto che ho avuto un aborto spontaneo, che ho tutta la documentazione che vorrei la pillola RU846. Rispondono che non è quello il posto giusto che lì è per le donne che devono partorire e che devo recarmi all’ambulatorio di Pianificazione Familiare. nel palazzo accanto, al primo piano. Sempre più nervosa e sconfortata ripercorro le scale, esco dal PS e cerco il palazzo, penso al nome “pianificazione familiare”. Non mi sembra molto adatto a una donna che vuole/deve abortire. Cos’è un aborto? Una pianificazione fallita? Arrivo al primo piano, non c’è nessuno. Suono. Si affaccia un’ostetrica e mi dice subito: “Prego?”. Ancora una volta ripeto: “Buongiorno, ho avuto un aborto spontaneo, ho tutta la documentazione, mi occorre la pillola RU846.”

“Attenda la faccio entrare tra pochi minuti” L’ostetrica è giovane, avrà meno di 30anni. E’ di bell’aspetto, dal sorriso e dal tono della voce sembra empatica. Mi ripeto che è la volta buona, andrà tutto bene. Si riaffaccia “Prego, la ginecologa si è liberata”. La porta è aperta, seduta alla scrivania c’è una ginecologa donna, avrà almeno 20 anni più di me, potrebbe essere mia madre, mia zia.
Non mi fa neanche sedere, mi saluta a mala pena, l’ostetrica le riassume quanto le avevo detto poco prima. Senza neanche guardarmi in faccia mi chiede se ho perdite, le rispondo di no. Mi dice che vuole farmi un’ecografia. Le consegno la documentazione “qui ci sono due ecografie, le betaHCG etc”. Capisco che non mi sta ascoltando e mi ripete che vuole vedermi. Mi sdraio sul lettino. La ginecologa inizia a fare l’ecografia, mi domanda “la data dell’ultima mestruazione”, e mi dice “signora ma lei non ha avuto un aborto spontaneo, c’è il battito” Io esterrefatta: “Dottoressa ma come è possibile? L’embrione invece di crescere si è ridotto, le betaHCG si sono arrestate”. Lei controbatte: “Certo la situazione non è rosea, la camera gestazione ha una formazione anomala, l’embrione per la settimana gestazionale è molto piccolo, potrebbe essere stato concepito successivamente”.

Si alza anche la giovane ostetrica “Lo vedo anch’io il battito, chiamiamo anche un altro dottore”. Entra il secondo ginecologo, io sono sempre sul lettino, con la sonda per la transvaginale, gli dicono “La signora è venuta qui per un aborto spontaneo chiedendo la pillola RU486, ma c’è il battito”. Il secondo ginecologo “Annuisce, dice certo la situazione non è delle migliori, ma si può aspettare”. Io sgomenta “Aspettare? Cosa devo aspettare è più di tre settimane che la gravidanza si è fermata. L’embrione non cresce. È una gravidanza che può proseguire, può evolvere?”. I medici non risponderanno a nessuna delle domande, ma si limiteranno a chiedermi innervositi: “Signora ma lei questo figlio lo voleva?”. A questa domanda umiliante e irrispettosa, mi limito a rispondere che certo lo volevo, ma che avrei voluto un figlio sano. I medici insistono dicendo che, se desideravo davvero quel figlio, non c’era fretta né non c’è motivo di intervenire e si poteva aspettare qualche settimana. Mi invitano a tornare, nuovamente lunedì per ripetere l’ecografia e decidere. La fine della storia è che una amica medico che lavora in un’altra Regione, arriverà fino alla vergognosa Capitale, per aiutarmi ad abortire. Perché in Italia nel 2024 l’aborto è un privilegio e non un diritto.