“Antiliberismo e antifascismo: impariamo dalla sinistra francese”, parla Massimiliano Smeriglio

RMAG news

Massimiliano Smeriglio, già europarlamentare e figura di primo piano di Avs, qual è il messaggio politico di fondo che viene dal voto in Gran Bretagna e in Francia?
Sono importanti segnali di controtendenza rispetto al vento di destra che spira in tutto l’occidente e che resta forte, ben radicato tra le classi popolari impoverite dalla globalizzazione. Anche se sono due casi distinti. In UK dopo quasi quindici anni di governi conservatori che hanno esasperato le privatizzazioni, lasciato soli gli inglesi di fronte al covid, investito interessi e prestigio sugli scenari bellici, le persone volevano un cambiamento. Il Labour, a trazione moderata, ha comunque speso parole chiare sulla condizione sociale della working class e sul dramma del servizio sanitario pubblico, ormai ridotto al lumicino, incapace di curare le persone, lasciandole al loro destino e al loro portafoglio. In Francia, dopo una costruzione durata diversi anni, fatta di mobilitazioni, conflitti, ricostruzione paziente di un punto di vista di classe grazie al centro studi di France Insoumise, la sinistra, con spirito radicale e unitario, ha conseguito un successo elettorale importante. Mantenendo la barra su una doppia linea: lotta senza quartiere al liberismo di Macron (che tiene in ostaggio giovani, lavoratori e pensionati) e profilo antifascista, con tanti giovanissimi di terza generazione saliti alla ribalta, prima nelle mobilitazioni, poi nella rappresentanza. Le due cose insieme, anti liberisti e antifascisti. E anche altre due cose insieme, il conflitto e la rappresentanza. Un percorso esemplare, non occasionale, né emotivo, profondamente incistato nelle coscienze e nella passione civile delle nuove generazioni. Tutti lodano Macron, io credo invece che ha sbagliato i suoi conti: voleva mandare a sbattere Mélenchon sperando di avere buon gioco nella polarizzazione con Le Pen. Gli è andata male, e ora la Repubblica rischia una crisi senza precedenti perché il Presidente si ostina a non dare l’incarico al Fronte popolare, raggruppamento elettorale arrivato primo. La supponenza della élite parigina globalizzata rappresentata da Macron e dai suoi ministri, undici su quindici provenienti dalla Capitale, è senza limiti. Erano e restano lontanissimi dal Paese reale, dalle periferie, dalle aree interne, da chi fa fatica ad arrivare alla fine del mese.

C’è chi riferendosi alle elezioni britanniche e al successo del Labour Party di Keir Starmer, ha sostenuto che la sinistra vince se fa fuori i massimalismi.
Una lettura superficiale, come sempre fanno quelli che rimangono ostaggio dello schemino mainstream, delle formulette magiche con cui sedano il dibattito dei talk progressisti, pensato per le élite, rivolto alle élite e nel migliore dei casi al ceto medio riflessivo progressista che pensa di aver lottato moltissimo dopo aver visto una puntata di Propaganda. Ripeto in UK, dopo una serie imprecisata di gaffe dell’ex premier Sunak vince il cambiamento fondato sul ritorno della necessità dei servizi pubblici. Di contro, essendo il mondo più ricco e complicato di come lo descrivono i templari dello status quo, sulla Brexit e l’Europa, il Labour ha ampiamente soprasseduto dal farne una bandiera elettorale. Invece trovo grave la campagna di isolamento che ha subito Corbyn, con accuse di antisemitismo solo per essere da sempre vicino alla causa Palestinese; ciononostante è incoraggiante il successo clamoroso ottenuto nel suo collegio storico. Da ultimo temo che la linea atlantista e guerrafondaia inglese non cambierà di una virgola. Il tema, dunque, non è la normale alternanza di governo in invarianza di politica estera e compatibilità liberiste in economia, ma l’inveramento di una alternativa sostanziale che passa tra le maglie della società e diventa azione di governo. Non per vezzo, ma perché le ricette sin qui seguite non hanno risolto la crisi sociale, del lavoro, ambientale che sta impoverendo e consumando il pianeta.

Sempre in questa chiave di lettura, si sostiene l’impraticabilità del modello francese del Nuovo Fronte Popolare in Italia. Cosa è che non va in Mélenchon?
Forse servirebbe una spinta in più nella mobilitazione pacifista e nella ricerca costante dello spazio autonomo Europeo, oltre l’agenda atlantica. Parliamo di sfumature, nulla a che vedere con l’ostinata agenda di guerra che il Pd e non solo si ostina a tenere nelle risoluzioni del parlamento europeo. Per il resto c’è solo da imparare, vocazione unitaria e programma di trasformazione sociale antiliberista di ispirazione eco socialista. Mi colpisce molto il lavoro svolto dal 2016, con una organizzazione che mira a promuovere la partecipazione diretta e la democrazia interna. Ruolo importante, oltre al coordinamento politico nazionale, lo svolgono le assemblee e i gruppi di azione territoriali, le campagne tematiche e la piattaforma on line con cui gli iscritti possono esprimersi su questioni dirimenti per il movimento. Trovo decisivo il lavoro svolto dal centro studi Institut La Boetie nell’elaborazione delle politiche e delle strategie. La Boetie, inoltre, si occupa di praticare l’egemonia culturale sui blocchi sociali popolari con ricerche, analisi, con lo sviluppo del programma, la formazione politica, la diffusione delle idee e dei linguaggi. Sottolineo l’importanza della formazione politica, della elaborazione collettiva di narrazioni e ideologie capaci di interpretare il tempo presente, strumenti utili per la battaglia politica e per la costruzione di un pensiero forte di lungo periodo. Di questa cosa specifica in Italia, a sinistra, non si occupa più nessuno, tutti troppo presi da Fondazioni personali, da carriere personali, o dalla battuta del giorno con cui sopravvivere nella bolla politicista. Ma il nostro assillo dovrebbe essere quello di rompere la bolla, falla esplodere, stracciare il velo di Iside del dibattito pubblico ufficiale sempre piuttosto ipocrita. Mi piacerebbe vedere all’opera una sorta di movimento “smash the thumb”, colpisci il pollice, per uscire dalla dimensione social, ovviamente importante, ma ormai intesa da moltissimi protagonisti della vita politica come l’unica possibile. Lo dico a me stesso: non basta ricevere o mettere un like per cambiare il mondo. Servono le parole e le pratiche sociali, serve alimentare vincoli di comunità reali, resistenti, capaci di appassionare e attivare i neuroni specchio, i veicoli dell’empatia umana, quella cosa che ci fa indignare e soffrire di fronte alle difficoltà di un altro essere umano. Poi certo anche i social. Ma con lo sguardo perenne sul cellulare l’empatia si attiva meno perché lo sguardo non è poggiato sul mondo reale che comprende un sacco di cose, ma sul rapporto binario individualizzato che i social realizzano. France Insoumise, a suo modo, fornisce le basi teoriche e pratiche per le azioni politiche e pratiche di società. Non male, un primo vero passo verso il ritorno della politica che organizza in termini di massa il conflitto di classe e quello di luogo. Appunto l’alternativa di società, con la parola socialismo che torna ad entusiasmare parti consistenti del nuovo proletariato precarizzato, senza welfare, ostaggio dell’economia delle piattaforme.

In Francia hanno festeggiato la vittoria contro l’estrema destra intonando Bella ciao.
Bella ciao è ormai un canto di lotta conosciuto in tutto il mondo, cantato dalle donne iraniane e dai militanti curdi sul fronte anti Isis. Fa venire i brividi, dovremmo essere orgogliosi della nostra storia, dei nostri padri costituenti, della straordinaria pagina della Resistenza come pratica di trasformazione sociale, di protagonismo disobbediente. E dovremmo tornare ad essere all’altezza della storia della sinistra italiana, dei comunismi, dei socialismi, dei femminismi, dei movimenti che hanno innaffiato e irrobustito la pianta della Repubblica perché appunto sostenuta da una parte consistente di popolo. Dalla caduta del muro a tangentopoli la Repubblica italiana è stata menomata, sono cadute in disgrazia le forme e le forze che avevano tenuto in vita la costruzione democratica, chi dal governo, chi dall’opposizione, chi dentro il conflitto sindacale messo all’angolo dalla sconfitta ai cancelli della Fiat nel 1980 e poi dal referendum sulla scala mobile nel 1984. Queste forze seppur spesso in conflitto tra loro hanno mantenuto in vita la parte programmatica della Costituzione, quella relativa al contrasto delle disuguaglianze. La Costituzione se non è presidiata dalla volontà e dalla necessità popolare, dall’idem sentire de repubblica di cui parlava Calamandrei rischia di diventare un simulacro, una carta morale e non un programma politico, uno strumento percepito come socialmente utile dal popolo. Bisogna ricominciare da dove abbiamo interrotto, dalla critica al modello di sviluppo, al capitalismo che sussume la vita, la rende merce, così come mercifica e depreda il pianeta. Tutto assume un valore di scambio, senza più alcun riferimento al valore d’uso. Ricominciamo a dare battaglia, confliggere, metterci in mezzo, non solo rappresentare tutto ciò nelle istituzioni, ma costruendo qui ed ora presidi culturali e case matte fuori dalla egemonia del pensiero unico liberista. Oggi esportiamo non più la cosiddetta democrazia con le armi, ma semplicemente il mercato, la sua pervasività, la sua devastante capacità di allargare ingiustizie e distanze tra chi ha e chi non ha. Ecco ricominciamo a costruire dal basso la sinistra, senza settarismi e ideologismi, manteniamo l’ambizione di governo, ma un governo che poss  realmente cambiare la vita di chi vive di salario, sussidi di disoccupazione e pensione. E questo semplice obiettivo non è un pranzo di gala, ma un conflitto aspro, da agire per strappare risorse a chi sta meglio contiene in sé la consapevolezza di quanto sia complicato, come si vede in Francia. Battere le destre (e non governarci a seconda delle improbabili emergenze nazionali), battere i liberisti, contrastare la tecnostruttura europea che nel tempo si è trasformata nella gabbia della democrazia e dei popoli. A quel punto saremo in grado di tornare a cantare Bella ciao donando profondità e verità a quelle parole.

Le elezioni passano, le guerre continuano, dall’Ucraina a Gaza. E l’Europa?
Intanto sono contento che un drappello di parlamentari pacifisti sia comunque arrivato a Bruxelles, Salis, Lucano, Tarquinio tra gli altri; lì bisognerà fare una parte importante della battaglia. Se le grandi famiglie europee, i socialisti in primis, continueranno ad assumere asetticamente l’agenda atlantica, trasformando la sinistra in agente di guerra e non di pace sarà difficile spiegare che ci battiamo per un altro mondo possibile. Se le compatibilità liberiste imbriglieranno le vite delle persone, ad esempio con il ritorno del patto di stabilità, sarà complicato parlare di alternativa di società. L’Europa ha bisogno di una vera legittimazione popolare costituente, dovremmo riproporre la necessità di una Costituzione europea. Per questa via si potrà tornare a parlare di autonomia europea e di un ruolo diverso e distinto da Usa e Uk che le istituzioni europee potrebbero svolgere nel nuovo scenario mondiale multipolare. Avanzare proposte per la de-escalation, porsi come soggetto terzo, vicino all’Ucraina invasa, ma non cobelligerante, porsi come agente diplomatico di pace, questa la strada che l’Europa dovrebbe percorrere. Trump è a un passo dalla vittoria, la Cina fa esercitazioni militari in Bielorussia, usiamo armi sempre più sofisticare e offensive. Balliamo sul baratro, non so cosa altro deve accadere per tentare una strada diversa da quella dell’escalation militare simmetrica. A Gaza e in tutta la Palestina occupata l’Europa sta dando il peggio di sé, scrivendo pagine vergognose, vili e ipocrite di fronte al massacro quotidiano di una popolazione civile sbandata e affamata. Se si arriva a non denunciare la strage di cento persone per uccidere, forse, un capo brigata di Hamas quale è la differenza tra Stato di diritto e azioni terroristiche? Se l’occidente continua a tenere il doppio standard tra una autodeterminazione buona e giusta, quella contro l’occupante russo, e una sbagliata, quella del popolo palestinese, se continueremo a trattare i bambini morti a Kiev o Gaza in modo differente, non avremo nessuna credibilità e alimenteremo la spirale di odio che può incendiare gli animi di milioni di giovanissimi che, nel mondo, non sono o non si sentono occidentali (esattamente per queste ragioni), anche quando vivono alla periferia di Milano. Fa impressione riascoltare le parole che usavano il presidente Pertini o Craxi, per non dire Berlinguer, sulla causa palestinese. Oggi sarebbero messi al bando, oscurati, e in diversi Paesi europei addirittura denunciati. Sta qui la cifra della nostra sconfitta e la mancanza di equità e coraggio.

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