Caso Asso29, l’Italia condannata per i migranti respinti in Libia: “Sottoposti a torture e schiavitù”

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È una sentenza a sua modo storica quella pronuncia dal tribunale civile di Roma e firmata dal giudice Corrado Bile. L’Italia, con la presidenza del Consiglio dei Ministri, i ministeri di Difesa e Infrastrutture, oltre alla società armatrice Augusta Offshore spa e al capitano della nave Asso29, sono stati condannati al pagamento di un risarcimento di 15mila euro ciascuno nei confronti di 5 migranti, fra cui un bimbo di 2 anni e una donna incinta all’ottavo mese all’epoca dei fatti, respinti dal nostro Paese e rimandati in Libia.

La storia della Asso29

La storia è quella della Asso29, un mercantile che il 2 luglio del 2018 soccorse una motovedetta libica. La nave andò in avaria con a bordo 150 migranti e l’imbarcazione mercantile, coordinata dalla nave militare italiana Duilio, era intervenuta a soccorrerla.

La nave mercantile l’aveva quindi trainata verso il porto di Tripoli. Qui, scrive il giudice Bile ricordando i risultati della ‘Indepentent Fact- finding Mission on Libya’ del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, citata nella sentenza, i migranti furono “sottoposti a una diffusa e sistematica detenzione arbitraria” nei lager libici di Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan, con “atti di omicidio, sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri atti disumani” che “vengono commessi in relazione alla loro detenzione arbitraria”, come da sentenza di cui riporta ampi stralci l’agenzia LaPresse.

La causa contro lo Stato italiano

Ad accusare lo Stato italiano cinque ricorrenti, assistiti dagli avvocati Cristina Laura Cecchini, Luca Saltalamacchia, Giulia Crescini, Alberto Guariso, Salvatore Fachile, Lucia Gennari e Loredana Leo: i cinque migranti hanno trascinato in giudizio nel 2021 le istituzioni italiane, il capitano del mercantile e la società armatrice.

Oggi i cinque si trovano in Europa, dove sono giunti “tramite programmi di resettlement, corridoi umanitari o attraversando nuovamente il Mediterraneo” ottenendo il riconoscimento della protezione internazionale, fa sapere l’Associazioni Studi Giuridici per l’Immigrazione che ha fornito supporto legale,

La Libia non è un Paese sicuro

Anche questa sentenza ribadisce un dato di fatto: la Libia non può essere considerato un Paese sicuro. Riconsegnare i migranti alle autorità libiche, scrive il giudice, è una palese violazione delle norme e convenzioni internazionali. “Il fatto che avvengano sbarchi in luoghi ‘non sicuri’ – si legge nella sentenza – si traduce, peraltro, in una violazione del principio del non-respingimento, nonché del divieto di ‘espulsioni collettive’ e, più in generale, del diritto alla ‘protezione internazionale’ accordato ai rifugiati (in fatto e/o in diritto) e ai richiedenti asilo”.

In particolare “la gestione del coordinamento delle operazioni di salvataggio che solo primariamente” sono affidate alla Libia non può far venir meno” il “dovere” di un comandante di “rispettare gli obblighi, gerarchicamente superiori, imposti dalle norme internazionali”, tra cui quelle che riguardano la “rapidità” dell’assistenza in mare senza arrecare “gravi pregiudizi alla sua nave e alle persone a bordo”.