Che cos’è il Rebetiko: il blues della Grecia risuona in un libro, il genere musicale dei bassifondi di Atene

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Ragazza egiziana dagli occhi neri, dalle labbra dolci di miele. Pulp Fiction non sarebbe mai potuto essere lo stesso senza di lei: il film di Quentin Tarantino che ha sconvolto e stravolto il cinema mondiale non sarebbe stato lo stesso senza quel riff trascinante. Senza di lei, la ragazza cantata per la prima volta in un rebetiko scritto negli anni ’20 da Tetos Dimitriadis, un greco nato a Istanbul trasferitosi negli Stati Uniti. C’è sempre una nostalgia, una saudade a velare e a salvare la musica della terra dei padri. Rebetiko – La canzone greca dei bassifondi, pubblicato da AIORA, tradotto da Viviana Sebastio, racconta quello che per la Grecia è il blues è per gli USA, il tango per l’Argentina, il fado per il Portogallo.

Come si accennava, musica della sottocultura urbana, non ancora stereotipata, turisticamente massificata come i generi citati precedentemente. A Vinicio Capossela – che al rebetiko ha dedicato un docufilm, Indebito, un album, Rebetiko Gymnastas, e che ha firmato la prefazione al volume – gli sembrò una mareggiata la prima volta che l’ascoltò. “Come tutte le musiche che non hanno paura della verità, il rebetiko non teneva fuori dalla porta né la morte, né il dolore. Li accoglieva. Sembrava rinnovare quel sentimento epico per il quale prendiamo coscienza che ogni attimo è eterno perché è l’ultimo, ed è quello che ci invidiano gli dei”.

Profeta del rebetiko è stato Markos Vamvakaris, nato a Syros e fuggito ad Atene per ragioni mai precisamente ricostruite. Al porto del Pireo, giovanissimo, fece ogni genere di lavoro. Dal carbonaio al lustrascarpe al macellaio allo scaricatore. Viveva in mezzo a malavitosi, sfollati, prostitute: l’habitat naturale delle tekedes, dove avrebbe vestito i panni del messia con un bouzuki in braccio. Fulminato dopo aver visto suonare il galeotto Nikos Avaliotis, imparò a mettere le mani su quella specie di mandolino greco in circa sei mesi. Rebetiko, secondo alcune versioni, vuol dire “del rebetis”, del ribelle. Antisociale, decaduto, indisciplinato.

I protagonisti di queste canzoni fumano narghilé, si fanno arrestare, si drogano, si riuniscono nelle taverne, si prendono a coltellate, si vendicano. Personaggi che dalle campagne all’inizio del ‘900 arrivano nelle città. E si perdono, sfogano la loro passione e la loro solitudine nel bouzouki. Sono mangas, sorta di guappi apolitici la cui azione politica si compie però nel loro stesso stile di vita. La versione femminile, figura di sfacciata indipendenza, sono chiamate mànghissa e derbedèrissa. Un capitolo del libro è dedicato ai parallelismi tra rebetiko e blues a cura di Sakis Papadimitriou. Un altro a una raccolta di spartiti a cura di Markos Dragoumis. Compaiono 53 brani dal repertorio classico, con testo greco a fronte. È una musica che si genera ai margini della società, fiorisce nelle tekès, si allarga negli ensemble. Si balla come chassàpiko o come zeibèkiko. L’amore è quasi sempre tormentato, disperato, tiranno, maledetto. Charos, la personificazione della morte, fa più volte capolino.

Rebetiko vuol dire in qualche modo anche Asia, per contrasto e per acquisto. Per i clefti, bande di irregolari che si ribellavano alle autorità turche sotto la dominazione ottomana, virtuosi del bouzuki. E per la “Catastrofe”: quando nel 1922 Atene provò a riprendersi le terre turche ma la controffensiva sbaragliò l’attacco e chiuse tutto nelle atrocità del rogo di Smirne. Migliaia di famiglie rientrarono, soprattutto tra Atene e Salonicco. E tra questi anche talentuosi musicisti. Migranti di ritorno, ancora quella nostalgia dentro, di ritorno, ma questa volta traumatico. Rebetiko è un modo di vivere più che un genere di musica, ha conosciuto la sua età dell’oro negli anni ’50. E nel 2017 è stato inserito dall’UNESCO nella “Lista rapprsentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità”.

Rebetiko – La canzone greca dei bassifondi è una felice introduzione a questo mondo ancora incorrotto, ancora non totalmente invaso dall’omologazione culturale.

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