Chi è Han Kang e perché ha vinto il Premio Nobel per la letteratura

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Nei romanzi di Han Kang, nata nel 1970 in Corea del Sud, ritroviamo lo stile del mondo, come in quelli pur diversissimi di Roberto Bolaño: uno stile frammentario, liquido, proteiforme, ma al tempo stesso in lei miracolosamente cristallino. I personaggi vengono quasi sempre raccontati da un altro, in un vertiginoso accavallarsi di punti di vista. Il suono delle loro parole ci arriva distorto, velato. Il suo sguardo sulla realtà ha una radicalità assoluta, che in Italia potrebbe essere accostata solo a quella di Vitaliano Trevisan, travasata nello stile ma priva di qualsiasi orpello cartaceo.

Forse per capirla occorre aver visto almeno un po’ di cinema coreano e ancor più alcune serie tv coreane, che per qualità drammaturgica, visiva e di recitazione, sono le uniche a competere con quelle americane (inoltre quando le guardo mi sento appena un po’ meno “colonizzato”: perfino il paesaggio urbano, con i suoi grattacieli, è lievemente diverso da quello di New York o di Chicago, e poi parlano una lingua per noi misteriosa, con la sua musicalità estenuata e pungente, ricca di dinamiche). In quasi tutta la fiction coreana vi è una attenzione quasi ossessiva alla disabilità, all’handicap fisico e mentale (ad esempio l’avvocata Woo, autistica e con una passione infantile per le balene, irresistibile nei processi per la sua conoscenza del diritto e la sua empatia), agli spettri e ai demoni del nostro immaginario, ai rimorsi e ai lutti, e poi all’enigma del male, ai conflitti senza vera soluzione, all’inesorabilità del destino.

I romanzi di Han Kang

Nella Vegetariana (2019, Adelphi, come gli altri suoi titoli), romanzo insieme ascetico e perversamente compulsivo, la protagonista, una giovane sposa, rifiuta di mangiare carne a seguito di un incubo: da quel momento sembra quasi aspirare a confondersi in un indistinto universo vegetale, a fondersi con la natura per liberarsi dalla pena delle normali relazioni umane. Non siamo certi che sia una illuminazione o l’esito di una pulsione autodistruttiva. I suoi personaggi femminili sembrano tutti voler cambiare per emanciparsi da ogni vincolo, perfino dal vincolo del proprio corpo. Nei romanzi di Han Kang non c’è mai la retorica o l’esibizionismo del dolore che affligge molta letteratura italiana contemporanea: glielo impedisce la prosa, limpida e quasi autoprosciugata, capace di aderire ai dettagli – ai petali delle viole, alle unghie tagliate spaventosamente corte – fino a dissolversi.

Nell’Ora di greco (2023), relazione tra lui professore di greco antico sul punto di diventare cieco e lei insegnante di letteratura affetta da improvviso mutismo (una relazione nata dalla comune perdita, lui un grande amore e lei un figlio) troviamo un rapporto drammatico con la lingua, con le parole. Credo che ogni scrittura autentica debba implicare quella drammaticità. Tendo a diffidare di autori troppo brillanti e verbosi, inesauribili giocolieri della lingua, dotati di un talento che sembra non costagli nulla. Quando la protagonista del romanzo durante una lezione perde improvvisamente la parola (già le era capitato) ed emette un borbottio incomprensibile, accade che un silenzio compatto ostruisca lo spazio tra la chiocciola dell’orecchio e il cervello. Da quel momento non si ricorda come usare le labbra per pronunciare le parole: “Non pensava più in parole. Agiva senza parole, comprendeva senza parole”. Il suo orizzonte si impoverisce tutto ad un tratto ma al tempo stesso si libera di quel linguaggio “che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di mille spilli”. Allora si immerge nello studio del greco antico, una lingua morta da secoli “che non può più essere utilizzata nella comunicazione orale”.

Quelli che lo studiano parlano tutti in modo flemmatico e “non mostrano facilmente le emozioni”. Il professore, che ha studiato in Germania ed è a sua volta diviso tra due universi linguistici, insegna il greco di Platone, un idioma che sta sul punto di corrompersi e decadere. Lei scopre che il processo della dimostrazione logica, caro ai greci, “non può essere che azzardato e inaffidabile”. E soprattutto scopre che le parole greche vogliono sempre dire due o più cose insieme. “Chalepà tà kalà” significa infatti “Le cose belle sono belle”, ma anche “Le cose belle sono difficili” e infine “Le cose belle sono nobili”. C’è un passo dove il buddhismo, questa filosofia da noi fatta apposta per essere equivocata, viene spiegato con una immagine di estrema nitidezza: le parla sempre con un tono di voce basso perché “non le piaceva appropriarsi dello spazio… non voleva espandere la propria presenza”.

L’Ora di greco è stato definito dall’autrice – un po’ sorprendentemente – un lieto fine del romanzo precedente, La vegetariana. In che senso? Del libro di Borges qui citato sul buddhismo viene sottolineata una frase: “Il mondo è un’illusione e la vita un sogno”. Alla quale il professore aggiunge una annotazione: “Eppure com’è vivido il sogno! Il sangue scorre, e le lacrime brucianti sgorgano”, e, di seguito, semplicemente la parola “vita”. Quasi un haiku, il genere poetico giapponese che ha radici buddhiste. Vengono in mente per assonanza due celebri haiku di Issa Kobayashi, poeta-sacerdote e pittore del ‘700: “Mondo di sofferenza / Eppure i ciliegi / sono in fiore”, e poi “Il mondo della rugiada / Un mondo di rugiada è davvero / Eppure, eppure”. In questi versi luminosi e strazianti apprendiamo che il mondo è impermanente, sottile ed effimero come rugiada, ma c’è quel minuscolo “eppure” che ci apre alle lacrime, al desiderio, alla vita stessa.

Qui Han Jung riannoda una sapienza millenaria, che attraversa i popoli e le culture, e che riguarda sia l’Oriente che l’Occidente. Per avvertire un presentimento di felicità, labile ma presente nella nostra esperienza, occorre andare fino in fondo alla sofferenza, e accettare che siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e che l’intera esistenza è incardinata su una mancanza. Infine troveremo quel silenzio inscrutabile, ovattato, oltre ogni idioma e alfabeto (le parole sempre ci tradiscono), che ci permette di comunicare tra noi nello zampillante scorrere del tempo. Il corpo umano è certo “una cosa triste”, pieno com’è di parti rientranti e vulnerabili, ma è anche un corpo “nato per abbracciare, per desiderare di abbracciare qualcuno”.

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