Chi era Alain Delon, il più bello di tutti: appassionato, talentuoso, è sopravvissuto a sé stesso

RMAG news

C’era una volta Alain Delon. Addio, Alain. Non c’era ragazzo, un tempo, convinto della propria avvenenza che non si sentisse pronunciare una frase tombale, derisoria: “Ma chi ti credi di essere, Alain Delon?”. L’inarrivabile, il pezzo unico, di bellezza, appunto. Il mestiere tutt’altra storia. La bellezza come talento, semmai. Alain Delon – alendelòn – era quasi un aggettivo. La sostanza stessa della bellezza, inarrivabile, dono di natura, nel suo caso un regalo così poderoso da avere spalancato al ragazzo scapestrato, incorreggibile francese, cresciuto con attitudine da “blouson noir”, i portelloni dorati del cinema, del successo, e, su tutto, l’attenzione femminile, l’irresistibilità, il suo volto come magnete silenzioso della seduzione.

Lo scrittore Georges Perec, in un catalogo di ricordi che restituiscono le emozioni memoriali degli anni Cinquanta, annota: “Je me souviens qu’Alain Delon était commis charcutier (ou garçon boucher?) à Montrouge.” Salumiere o forse garzone di macelleria. Verrà poi il servizio militare in Indocina. Smessa l’uniforme bianca di fuciliere di marina, ad aspettare Alain, secondo leggenda, sembra esserci Luchino Visconti. Delon pronto per l’avventura di Rocco e i suoi fratelli. E ancora, poco oltre, perfetto per il ruolo di Tancredi ne Il gattopardo.  Verrà poi tutto il resto, pellicola e ancora pellicola per trattenerne il volto, resta però che il primo piano di Alain surclassa il cartellone stesso, addirittura appare irrilevante, ora che se n’è andato a 88 anni, perfino snocciolare i titoli dei film interpretati da lui – tra questi, è vero, c’è “L’eclisse”, “Mr. Klein”, “Il clan dei siciliani”, e occorre ancora immaginarlo accanto a Jean-Paul Belmondo, sinonimo di bellezza atipica, amici-complici, e poi Alain organizzatore di incontri di boxe, Alain da alcuni ritenuto anche un po’ “fascista”, non proprio un esempio di progressismo, omofobo e convinto che l’omosessualità sia contro natura, Alain e l’attitudine intatta da perbenista dell’Esagono, assimilabile alla “borghese” Brigitte Bardot, e su tutto poi l’amore per gli animali, i suoi cani, e ancora, fra molte donne, occorre immaginarlo in coppia, gemellaggio di bellezze nuovamente inarrivabili, accanto a Romy Schneider.

Raccontava a noi il signor Crisci, storico barman dell’albergo palermitano “Villa Igea”, liti, scenate e schiaffi e urla e spintoni proprio lì, nei giorni del set proprio del “Gattopardo”, esattamente tra Romy e Alain. Alain sopravvissuto a sé stesso, Alain e i suoi cani, Alain che invecchia e intanto, come nel ritratto di Dorian Gray, si manteneva intatto nel mito, nella percezione altrui, Alain Delon, ancora l’uomo-aggettivo. Se ne narrava il ritorno a Palermo nel 2017. “Oh la vache!”. Eccolo nel cortile di Palazzo Valguarnera Gangi, cinquantatré anni dopo il film, ed è̀ questa l’unica frase che Alain Delon, allora ottantunenne, tra l’incredulo e il commosso, pronuncia mentre varca la soglia del luogo simbolo, dove Luchino Visconti ha girato una delle scene più lunghe – quaranta minuti – e conosciute della storia del cinema. Ad accompagnarlo, la giornalista francese Lea Salamé per l’emittente francese France 2, che sceglie di riportare a Palermoil bellissimo, l’attore sex symbol francese, che mezzo secolo dopo ha gli stessi occhi del principe Tancredi, mentre osserva la sua Angelica, la splendida Claudia Cardinale che volteggia con don Fabrizio, Burt Lancaster. Adesso il Gattopardo è lui.”

Ma facciamo macchina indietro: a quattordici anni Alain abbandona la scuola; sua madre risposata con un salumiere lo aveva fatto assumere come apprendista nella bottega del patrigno, dove il ragazzo sembra trovare finalmente un mestiere, diventando in breve uno dei dipendenti più̀ bravi, salvo poi decidere di arruolarsi nella marina francese nel 1953: destinazione, appunto, Vietnam. Verrà congedato dopo cinque anni, totalizzando undici mesi complessivi di prigione “per indisciplina”. Tornato in Francia nel 1956, si inventa facchino, commesso, cameriere tra Montmartre e i mercati delle Halles, perfino bohémien, a place de Clichy, cioè Pigalle… Nell’aprile del 2017, appunto, Alain Delon si era presentato in piazza Rivoluzione, a piedi, come un ordinario visitatore delle bellezze cittadine, sia pure in parte rimaste diroccate dai giorni delle bombe, sostando davanti alla statua del Genio. Nei pressi di via Alloro aveva incontrato una comitiva famigliare, turisti, questi lo avevano riconosciuto, subito implorando un selfie. Alain, gentile, disponibile, li aveva tenuti sotto braccio durante il tempo cordiale dello scatto; di sfondo si intravedeva il portone di palazzo Aragona, l’insegna velata di ruggine dell’Hotel Patria, ormai serrato. Delon, ottantunenne, era stato davvero affabile con gli sconosciuti, si era fatto fotografare: camicia azzurra di denim, ironizzando sulla lieve pancia che lo appesantiva.

L’avevano poi accompagnato sotto braccio fin sotto il palazzo, questo sì, dove si era svolta la scena finale, l’acme del ballo del Gattopardo. Era apparso strabiliato già arrivando in piazza Croce dei Vespri, poco prima che con una giornalista si incamminasse lungo la scalea di palazzo Valguarnera Gangi. Appariva però ora un po’ affaticato ammirando i luoghi, le meraviglie, lo sfarzo. «Putain, c’est beau!» era stata la sua esclamazione entrando nel salone, greve meraviglia degna di un Calogero Sedàra nel computare gli agi e le rendite dei Salina. Anche mentre veniva accolto dalla principessa intestataria della dimora, Alain aveva dato la sensazione della sua iniziale grevità adolescenziale, forse, in cuor suo, rimaneva il garzone di macelleria accennato dallo scrittore.
Delon da immaginare ancora nella sua proprietà a Douchy, dove viveva in solitario con un gatto e un cane, al centro di una foresta della valle della Loira, lo Château de La Brûlerie. Delon che raccontava dei suoi amatissimi pastori tedeschi: «Ne ho avuti più di cinquanta nella mia vita, fino a quattordici nello stesso tempo. Ho una cappella nella mia proprietà, lì intorno sono sepolti trentacinque dei miei cani. Ognuno ha la sua lapide, le coppie sono insieme: qui c’è tutta la mia vita. Oggi, posso dirlo, ho ottenuto l’autorizzazione d’essere sepolto nella mia cappella, tra i miei cani».

L’immagine simmetrica di un altro cimitero destinato al riposo eterno degli animali, non l’altrettanto francese Cimetière des Chiens di Asnières-sur-Seine, dove è sepolto sia Rin Tin Tin sia Clément, il welsh corgi dello scrittore Michel Houellebecq, semmai l’altrettanto incredibile cimitero dei cani del barone Lucio Piccolo, cugino di Lampedusa, nella villa in cima alla Piana di Capo d’Orlando. Anche lassù, nelle proprietà dei Piccolo, le lapidi erano fitte e ordinate e ogni tomba perimetrata con piccole lastre di cotto, i nomi sui cippi ritagliati in modo poligonale, quasi come le tombe dei paesi slavi o dei dervisci. Ma c’è ancora da fare caso a una foto scattata al bar di Villa Igiea, sempre durante la lavorazione del Gattopardo, nel 1962. Lì, Alain appare senza abiti di scena, è un momento di pausa. Sta incontrando un gruppo di studentesse del liceo classico dove si raccoglie, benché si tratti di un istituto pubblico, l’élite borghese, la futura classe dirigente cittadina; le ragazze per l’occasione portavano sull’abito una coccarda bianca.

Il sorriso di Alain, gli sguardi compiti delle giovani in visita, espressioni, posture, mossette da future madri impeccabili, magari casalinghe, capelli cotonati dal casco dei parrucchieri, il presidio generale delle timidezze, lacca sui capelli. Soltanto una di loro, occhieggiando di lato, sorride, l’attitudine alla naturalezza, mestiere e talento da creatura di mondo, sembrando ammiccare verso un punto imprecisato della scena e della vita. Un’altra custodisce nel segreto gli occhi stessi di Marilyn Monroe, diva inerme che morirà proprio in quei giorni, la somiglianza però si interrompe un istante prima d’essere evidenza. Le compagne tengono le mani sul grembo, rosicchiate in silenzio dai pudori, dando la sensazione di ritenersi inadeguate alla luce del cinema cui però sono tutte accostate. Soprattutto però sembrano giungere da un mondo non ancora contagiato dalla vertigine dei fan club, nonostante i Beatles siano già.

“Love Me Do” appena incisa, forse addirittura presente nelle classifiche di vendita dei 45 giri. I colleghi maschi raccontano intanto volti del contado inurbato, facce da mancati, impossibili, antagonisti dei belli dello schermo, sideralmente lontani da ciò che sta avvenendo. Soltanto uno di loro abbraccia la ragazza che gli è accanto, a segnalare che lui e lei sono fidanzati, “ingrizzati”, come pronunciava una volta il dialetto sentimentale palermitano. L’unica che sembri sollevare la carabina della naturalezza è una ragazza castana che nella foto appare di tre quarti e sorride: davvero la sola che si possa immaginare mentre fa l’amore, mentre lo accoglie tra le labbra e intanto, inginocchiata, solleva le ciglia e sorride all’amato giunto d’improvviso a Palermo dai cieli della fama. Alain che sei ora nei cieli del ricordo.

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