Chi era Enrico Berlinguer, un gigante che difendeva tutte le libertà tranne quella di sfruttare

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Maria, una delle figlie di Enrico Berlinguer, ha dichiarato pochi giorni fa di non aver mai avuto la forza di vedere il filmato del malore del padre mentre svolge il suo ultimo comizio a Padova, se non recentemente in occasione della proiezione di un documentario in cui era riproposto.

Debbo dire che anche io ho provato a farlo, almeno due volte, ma ho abbassato sempre gli occhi nel momento cruciale: quando il segretario del Pci comincia a sentirsi male e, con tutta la volontà della sua passione politica, tenta di contrastare gli effetti di un ictus devastante. Allora, le parole si impastano, gli occhi si velano, il corpo barcolla e si scompone.

Lui non molla, vuole concludere il suo discorso, fino al momento in cui, con il soffio di vita che gli rimane, incita le compagne e i compagni a combattere.

Poi, sappiamo che, sorretto da coloro che gli stavano intorno, sarà portato via per spegnersi definitivamente poco tempo dopo. Anche questo ha contribuito a lasciare un ricordo agli Italiani della sua tempra morale.

Della sua dedizione agli ideali della gioventù, che mai ha abbandonato; con una coerenza di epoche passate. In seguito, i funerali con un milione di persone.

L’omaggio di tutta la classe dirigente democratica ed anche del suo avversario più lontano, Giorgio Almirante, segretario del Movimento sociale.

Negli anni successivi, la figura di Berlinguer si è ingigantita, diventando una sorta di mito, molto al di là dei comunisti. Un rifugio della memoria.

Una nostalgia di tempi diversi e più autentici. Non solo malinconica o di rimpianto, ma anche attiva; che spinge a domandarsi come e quando abbiamo perso la strada e a tentare, in qualche modo, nel nome suo, di riprenderla.

Questo sentimento è fortissimo nei confronti di Berlinguer. Tuttavia, in forme diverse, investe i migliori leader democratici del Dopoguerra. Lo scarno ed essenziale profilo di Ingrao, combattente leale.

Le passeggiate pudiche di Moro, in giacca e cravatta, sulle spiagge laziali. Le partite a scopone scientifico di Ugo La Malfa. Il coraggio intransigente e così umano di Sandro Pertini.

Persino l’accoglienza di Giancarlo Pajetta a Giorgio Almirante, sul portone di Botteghe Oscure e di fronte al feretro del leader comunista, danno il senso di una politica più tragica e più alta.

Gente che credeva e poi praticava la coerenza. Che viveva del proprio lavoro in una condizione di vita normale. Che rispettava le istituzioni e sentiva la responsabilità del proprio ruolo.

Il successo fuori di ogni misura prevedibile della mostra dedicata a Berlinguer, presentata a Roma a Testaccio, è la dimostrazione che egli ormai appartiene a tutti gli Italiani, alla storia della Repubblica.

Questo è bello. A patto, però, che non scolorisca, nasconda, intorbidisca, in un abbraccio di unanimismo confuso, il profilo politico del leader del Pci.

Ben marcato, fortemente di parte, praticato con il senso della misura e con molte accortezze tattiche, eppure nella sua sostanza mai scalfito e deformato a seconda delle circostanze.

Berlinguer è stato certamente un innovatore. La libertà come valore universale, sostenuta dal suo corpo esile in un bacino congressuale di delegati del Pcus, freddo e incombente.

La ricerca di una via originale e autonoma del socialismo in Italia, fondata su una critica radicale del modello costruito nei Paesi dell’Est. Il respiro della sua politica internazionale, sulla pace, l’ambiente e la condizione femminile.

Tutto questo non era in discontinuità con la “certezza” del suo pensiero politico fondamentale; piuttosto lo alimentava e lo rendeva più ricco e calzante a fronte del mutamento del mondo.

Perché non va dimenticato che esso rimaneva perfettamente dentro i confini dell’impegno nella costruzione di una originale società socialista, democratica e pluralista, in grado di trasformare il capitalismo.

L’orizzonte in Berlinguer è rimasto sempre questo. La gradualità dei cambiamenti non poteva renderli annacquati e asserviti ad un modello di sviluppo distorto e fondato sullo sfruttamento.

Anzi, tali cambiamenti dovevano contenere già nel presente, e nel corso della storia che si stava svolgendo, elementi di socialismo. Riforme sì. Ma di struttura. Capaci di incidere negli assetti sociali e di mutare i rapporti di forza fondati sull’ingiustizia e la prepotenza.

Vanno rilette alcune sue pagine talmente chiare su questi punti, da apparire oggi persino un po’ rigide e scolastiche. Come il suo discorso a Genova nel 1978: “Le socialdemocrazie, concretamente, hanno promosso una politica riformistica, volta a conseguire un progresso sociale, alcuni miglioramenti a favore delle classi lavoratrici. Ma tutto questo è stato perseguito e conseguito sulla base del sistema capitalistico e delle sue strutture portanti, all’interno della logica del capitalismo e del suo sistema di valori umani e morali che, nell’epoca in cui il capitalismo è entrato nella sua crisi storica, si sono trasformati in disvalori […] Deve dunque restare ben ferma la consapevolezza che, storicamente, ciò che ha contraddistinto la socialdemocrazia rispetto ai movimenti comunisti e rivoluzionari è che essa persegue non una vera politica trasformatrice e rinnovatrice, ma una politica riformista rivolta ad attenuare le più stridenti ingiustizie e contraddizioni del capitalismo, ma sempre all’interno del sistema capitalistico”.

Oppure, quando in una tribuna politica accesa, risponde con calma e con piglio severo così: “Noi vogliamo una società socialista che corrisponda alle condizioni del nostro Paese, che rispetti tutte le libertà sancite dalla Costituzione, che sia fondata su una pluralità di partiti, sul concorso di diverse forze sociali. Una società che rispetti tutte le libertà, meno una: quella di sfruttare il lavoro di altri esseri umani, perché questa libertà tutte le altre distrugge e rende vane”.

Il nucleo di tali convincimenti è stato nel corso della vita di Berlinguer declinato in proposte politiche e modi diversi. Poco dopo essere stato eletto segretario nel 1972, e aver retto l’ondata di destra e fascista dei primissimi anni Settanta, nel ‘73, dispiega la strategia del “compromesso storico”.

Pietro Ingrao, che aveva delle riserve su alcuni aspetti della proposta, mi disse che comunque era di grande forza, alta e coraggiosa. È interessante sottolineare che essa avveniva dopo l’allarme del colpo di Stato fascista in Cile, sostenuto dagli Americani.

Insomma, a fronte di un pericolo antidemocratico interno ed internazionale, se si doveva dispiegare, come intendeva lui, un’azione di cambiamento non facilmente reversibile e non solo di facciata, occorreva avere il massimo delle alleanze politiche, del consenso della società e in primo luogo dei cittadini cattolici.

Un assillo che in Berlinguer derivava anche dalla eco dei ragionamenti di Palmiro Togliatti e Franco Rodano. Non sarebbe bastato, dunque, il 51%. O l’alternanza.

Piuttosto, serviva un blocco ampio di partiti e di forze sociali che, riprendendo lo spirito dell’unità antifascista e repubblicana che liberò l’Italia, alimentasse un progetto politico di lungo respiro e di rinnovamento politico, democratico e istituzionale.

È stata una grande politica. Visionaria e avanzata. Che incrociò la crisi della Democrazia cristiana, anch’essa in cerca con Aldo Moro di nuove vie per reinterpretare le spinte operaie e giovanili del 1968-69.

Tuttavia, questa grande politica oggi forse con più chiarezza osserviamo avere aspetti problematici. Innanzitutto, l’illusione di poter coinvolgere tutta la Dc in questo nuovo processo.

La Dc era una galassia assai complicata. Con dentro spinte persino reazionarie e conservatrici e, allo stesso tempo, con la genuinità di un pensiero di progresso e umanistico di ineguagliabile acutezza e modernità.

Per questo, nel momento in cui Moro cominciò ad aprire ad una collaborazione con il Pci, dovette essere tremendamente lento e gradualista. Moro avrebbe voluto accelerare e sentiva impellente per le sorti dell’Italia la necessità di tagliare molti ormeggi.

Contemporaneamente, però, sapeva che era necessario, per avviarsi su sentieri inesplorati, il consenso dell’intera Dc. La condizione era l’unità del suo partito.

Contemporaneamente, il malessere si evidenziò presto nel partito socialista. I socialisti con De Martino avevano dato il loro sangue ai comunisti italiani. Nel ‘76, andarono alle elezioni dichiarando la loro indisponibilità a qualsiasi governo che escludesse i comunisti.

Ciò fece crescere i consensi del partito di Berlinguer. E fece crollare sotto al 10% quelli del Psi. Dopo questo passaggio generoso, si sentirono malamente ripagati con una proposta che oggettivamente li avrebbe considerati marginali.

Dire che il 51% era insufficiente, significava ridurre il peso politico e il carattere essenziale del contributo socialista. Perché il dato fondamentale si concentrava sul rapporto con la Dc.

Da questa considerazione, secondo me, crebbe via via la spinta autonomista del partito socialista. Ed anche la sua sotterranea o manifesta insofferenza per un accordo talmente ampio, da sembrare illiberale; combattuto dai settori dell’opinione pubblica più radicale e dalla gioventù. Una parte della quale, in pochi mesi, si convertì alla violenza e alla lotta armata.

Il compromesso storico si dimostrò così forse troppo ambizioso e visionario. Comunque, la sua traduzione nei governi di unità nazionale fu sì capace di alcune riforme importanti, ma nel complesso presto si esaurì con uno strappo doloroso.

L’uccisione di Moro contribuì in modo determinante a questo esito. Chiaromonte, il giorno stesso in cui la direzione decise di cambiare linea, mi disse: “Venuto meno Moro, Berlinguer non si fida più di nessuno”.

Il leader del Pci a questo punto decise, dopo essersi speso tanto, di alzare il tiro della critica e dell’iniziativa politica e al contempo di salvare il grosso delle truppe con una manovra difensiva.

Fu molto criticato: settarismo, un ritorno indietro, una rinuncia a fare politica, un anticraxismo esagerato, un moralismo superbo. Ci furono certamente asprezze e qualche errore.

Ma per me quello forse è stato il momento, al contrario di quello che pensano i più, di più grande capacità di elaborazione, di iniziativa di lotta e di dispiegamento di un indirizzo che ormai coglieva appieno una crisi di sistema della Repubblica, che poi all’inizio degli anni Novanta sarebbe esplosa in modo devastante.

Sono gli anni del Berlinguer più amaramente consapevole dei cambiamenti del mondo in corso. Eroico lottatore tra una ripresa selvaggia del pensiero liberista e la paralisi finale del mondo del comunismo realizzato, arrivato ad un irrecuperabile degrado.

Tant’è che poco tempo dopo la morte di Berlinguer, anche il tentativo di Gorbaciov naufragò nella melma di un Paese ormai impoverito e privo di energie.

Berlinguer intuì la questione morale. Non come oggi si declina: la copertura della politica malata, trovando ogni tanto i colpevoli di turno come mele marce da eliminare spesso senza alcuna garanzia di difesa.

Al contrario, come grande questione democratica e nazionale. Che chiama il sistema politico a reagire ad una trasformazione degli stessi partiti in macchine di potere, di clientele e di voti di preferenza.

Radicalizzò la difesa operaia, perdendo tatticamente alla Fiat. Ma ponendo chiaramente il Pci in una fase nuova di scontro di classe, decisamente dalla parte giusta.

Si ritrasse dal gioco politico perché (avendo, secondo me, sbagliato negli anni Settanta nel marginalizzare il Psi), ormai quel partito aveva scelto uno schema di alleanze inamovibile: il pentapartito e la competizione, interna a quel recinto, tra socialisti e democristiani.

Si concentrò in un’azione di ampio respiro sui temi della pace. Riconquistando una parte dei giovani perduti. Vide, prima di altri partiti, il pericolo di uno sviluppo distorto e selvaggio per l’ambiente. Tematizzò, oltre il tema dell’emancipazione il nuovo protagonismo femminile.

Quando morì, Berlinguer lasciò un Pci in crisi per quanto riguarda la prospettiva politica. Forse eccessivamente severo circa alcuni aspetti positivi del governo di Craxi.

Ma qui si dovrebbe aprire un nuovo capitolo, che in questa sede è impossibile. Ma certamente con un popolo di sinistra attorno ancora compatto. Salvò un patrimonio storico.

Non rinunciò a tenere alta la fiamma di un pensiero critico, che dopo di lui si è drammaticamente affievolito. I suoi funerali furono imponenti.

Ed io, funzionario di partito ancora molto giovane, mi sentii piccolo piccolo di fronte a quell’immensa manifestazione di amore. Per un grande italiano, è ovvio. Ma per un uomo di parte. Che ha difeso la sua parte e l’ha onorata.

Ho avuto la fortuna di avere alcune preziose amicizie informali tra la generazione dei dirigenti del mio partito che hanno dedicato del tempo a insegnarmi qualcosa.

In presenza di Berlinguer, invece, ho avuto costantemente una certa soggezione. Eppure, a 14 anni, abitando mia nonna paterna nel suo stesso palazzo a viale Tiziano, lo incontrai in ascensore.

Avevo già la tessera del Pci in tasca. Fu gentile. E si incuriosì per la mia precoce militanza, di cui nonna aveva avuto modo di parlargli. Dopo, quando assunsi ruoli più importanti, ebbi modo di incontrarlo altre volte. Ma sempre con un po’ di ansia.

Era cortese, parlava educatamente, aveva un sorriso dolce e contagioso. Poi ti esprimeva le sue opinioni con essenzialità, che pesava dentro di te come un macigno.

Quando nel 1977 l’università di Roma era in mano a Autonomia operaia, discutemmo con lui i termini di una nostra possibile controffensiva democratica. Noi avevamo ancora una posizione prudente e incerta.

Lui ci disse: “Sì, sì. Capisco tutto. Ma vedete, mi hanno detto che nelle occupazioni sono stati distrutti i microscopi. Capite, i microscopi? Strumenti essenziali per i giovani proletari che vogliono studiare e non hanno i soldi come i ricchi per comprarli privatamente”. Capii in un attimo qual era la sua opinione.

Un’altra volta, organizzai per il partito una grande manifestazione al Pincio, alla quale sarebbe intervenuto il segretario. Mi venne in mente di invitare Benigni. Ero diventato molto amico del suo manager di allora, Vincenzo Ratti.

Alla fine, tramite quest’ultimo, il grande comico decise di partecipare. Fu la volta in cui, all’improvviso, sul palco Benigni prese in braccio Berlinguer. Non era davvero in programma.

Guardai Walter Veltroni, eravamo entrambi preoccupati. Poi volsi lo sguardo verso Tonino Tatò, che mi fece un gesto di assenso con la testa, accompagnato da un’espressione di incoraggiamento.

La cosa funzionò alla grande, perché era spontanea, impensabile, per nulla teatrale. Berlinguer si lasciò andare, sostenuto dall’attore toscano, sembrando ancora più piccolo e indifeso. Non caricò di un grammo la performance, con gesti accattivanti o smisurati.

Tirò solo fuori un grande sorriso. Di gioia vera. E ne fu felice. Perché quello che più gli dispiaceva era essere considerato come un uomo triste. Ripeteva di non esserlo affatto.

Il punto è che sapeva godere della famiglia, degli amici, dello svago, della lettura e della cultura, in modo semplice e non ostentato. Aveva una “forma” ben definita.

Che sapeva distinguere il privato con gli obblighi della sua funzione, nutrendo vicendevolmente le due dimensioni. Non come occasione per un “teatrino” accattivante, ma per scavare e conoscere meglio il senso umano delle cose.