Chiuso in Opg per un anno e mezzo, ennesima condanna della CEDU per l’Italia

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La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’articolo 5, comma 1 e 3 (diritto alla libertà e alla sicurezza) della Carta: un uomo, assolto per incapacità di intendere e di volere, è rimasto internato in una residenza psichiatrica per l’esecuzione delle misure di sicurezza oltre i termini che sarebbero stati altrimenti previsti per lui nel caso di una condanna.

I giudici di Strasburgo hanno stabilito che lo Stato dovrà versargli 8mila euro per i danni morali subiti, molti meno dei 60mila che l’uomo richiedeva.

Il ricorrente, F.C., attualmente detenuto nel carcere di Firenze per reati estranei al presente caso, nel 2003 è stato condannato in primo grado per possesso illegale di armi e ricettazione.

Nel 2004, la Corte d’Appello lo ha assolto per incapacità di intendere e volere ma ha ritenuto di dover prevedere di internarlo in un opg. Negli anni successivi la misura di sicurezza è stata prorogata più volte.

Nel frattempo, il decreto legge 52 del 31 marzo 2014, convertito in legge n., del 30 maggio 2014 (“la legge 81/2014”), ordinò la chiusura, entro il 31 marzo 2015, degli opg.

La legge 81/2014 ha inoltre introdotto, per le misure di sicurezza che comportano una restrizione della libertà personale, una durata massima pari alla durata massima della pena applicabile in caso di condanna.

Il 5 maggio 2016 il ricorrente è stato trasferito alla REMS di Volterra. L’8 luglio 2016, la procura ha osservato che nel caso del ricorrente la durata massima della misura di sicurezza – corrispondente alla durata massima della pena applicabile per i reati di cui era accusato – era di otto anni.

Constatando che la misura era stata applicata il 28 febbraio 2007, ha osservato che era giunta la scadenza di tale durata di pena applicabile. Ha quindi chiesto al magistrato di sorveglianza di ordinare la liberazione del ricorrente.

Il ricorrente ha denunciato di essere stato incarcerato illegalmente il 28 febbraio 2015, data che ha sostenuto corrispondente, nel suo caso, alla scadenza del termine massimo per le misure di detenzione preventiva introdotto dalla legge su citata.

Inoltre il ricorrente ha evidenziato, tramite il suo legale Michele Passione e la collega Mori (recentemente scomparsa), che i successivi tentativi di ottenere un risarcimento sono falliti, in quanto i giudici nazionali hanno ritenuto che il ricorso previsto dall’articolo 314 del codice penale italiano fosse applicabile solo a misure di sicurezza provvisorie, e non a quelli applicati a seguito di una sentenza definitiva.

La sentenza finale è stata emessa dalla Corte di cassazione il 20 marzo 2018. Si è dunque rivolto alla Cedu: il Governo italiano ha sostenuto che il ricorrente aveva perso la qualità di vittima a seguito dell’ordinanza del tribunale di Firenze che ne ha ordinato la liberazione, mentre l’uomo, opponendosi a tale tesi, ha spiegato che ha dovuto attendere diversi mesi prima del suo rilascio.

Ha commentato l’avvocato Passione: “Dopo una corsa ostacoli, passando dall’ufficio di esecuzione alla Tribunale di sorveglianza, al giudice dell’esecuzione, alla Corte Costituzionale, alla Cedu, l’Italia è stata condannata all’unanimità per assenza di base legale e per assenza di un rimedio effettivo nei confronti di una persona che è stata trattenuta 18 mesi oltre il limite massimo, prima in un ospedale psichiatrico giudiziario e poi in una Rems. Respinte tutte le contro deduzioni del governo rispetto alla perdita della qualità di vittima, alla tardività del tentativo di ricorrere alla Corte Costituzionale, impedito da due decisioni della Corte di Appello di Firenze e della Corte di Cassazione. E anche rispetto alla doglianza del governo che si sarebbe potuto ricorrere alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati: interessante a questo punto l’osservazione della Cedu che dà atto, come sempre accade – perché è una questione che viene posta in maniera ricorrente dal governo – che non c’è alcuna dimostrazione che questa legge abbia mai dato prova di essere un rimedio effettivo rispetto alle doglianze avanzate. Interessante anche il richiamo che la Corte fa, aderendo allo stesso riferimento giurisprudenziale, a una situazione che si era posta analogamente per i migranti trattenuti illecitamente e che non avevano ottenuto ristoro economico”.