Come è stata nascosta una strage di Stato, è bastato non mostrarne le bare: 36 i corpi recuperati dei 67 naufraghi, tra cui 26 bambini

RMAG news

La notte tra il 16 e 17 giugno scorso al largo del Mar Jonio, un’imbarcazione partita dal porto di Bodrum in Turchia con circa 67 persone a bordo (di cui 26 minori) è naufragata a circa 120 miglia dalle coste della Calabria. La barca era rimasta alla deriva per diversi giorni, con uno scafo semi affondato, probabilmente a seguito dell’esplosione di un motore. Secondo le persone sopravvissute, diverse imbarcazioni sarebbero passate in quell’arco di tempo senza intervenire: la barca è stata soccorsa solo il 17 giugno dopo il lancio del “mayday” da parte di una nave francese che aveva intercettato il veliero affondato. sono state tratte in salvo 12 persone, tra cui una donna poi deceduta prima di arrivare a terra, che sono state portate in salvo a Roccella Jonica, nella provincia di Reggio Calabria. Il numero dei sopravvissuti, 11, è attualmente l’unico certo.

Imprecise sono state le informazioni circa il numero dei corpi totali recuperati, che in data odierna è stato confermato essere 36 , di cui quello di una donna deceduta dopo i soccorsi del 17 giugno scorso. Le 35 salme recuperate in mare appartengono a 10 uomini, 9 donne, 15 minori e 1 non noto. Le nazionalità delle persone che viaggiavano a bordo dell’imbarcazione dovrebbero essere: Afghanistan, Iran, Iraq, Siria, Pakistan. All’indomani della strage, la Guardia Costiera avrebbe iniziato le ricerche in mare recuperando a più riprese i corpi. Decine sarebbero le persone ancora disperse, in un naufragio che ricorda per certi versi quello di Steccato di Cutro del 26 febbraio 2023, dove morirono almeno 94 persone: stessa rotta, numerose vittime e la possibilità di una sottovalutazione da parte delle autorità nell’autorizzazione al soccorso dei naufraghi. Infatti, il 16 giugno Alarm Phone aveva allertato il Cmrcc di Roma avvisando di aver ricevuto richieste di aiuto relative alla barca in difficoltà nello Ionio e aveva fornito alle autorità competenti la posizione esatta dell’imbarcazione in pericolo affinché le persone a bordo potessero essere soccorse.

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Diverse organizzazioni della società civile sono state allertate da quei familiari che nei Paesi di origine ma anche in Italia cercavano informazioni circa le sorti dei loro congiunti e che – per mancanza di comunicazioni chiare da parte delle autorità italiane – non riuscivano a comprendere né i luoghi né gli uffici preposti a gestire le conseguenze del naufragio. Mem.Med, ricevute diverse segnalazioni dall’Afghanistan, dalla Siria e dall’Iran, si è recata in Calabria per dare supporto ai familiari in arrivo e monitorare quanto accade.

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In queste ore le operazioni di ricerca e recupero delle salme in mare stanno proseguendo. La comunicazione delle istituzioni su queste operazioni è stata fin da subito carente e in alcuni casi fuorviante: le informazioni fornite sono state dosate in brevi comunicati che spesso sono risultati incompleti e incoerenti. C’è scarsa trasparenza sui numeri e sugli spostamenti delle salme delle vittime. Il blocco del lavoro dei giornalisti ha impedito di documentare correttamente e tempestivamente gli arrivi delle salme, giunte sempre in piena notte e distribuite su diversi porti della regione Calabria, tra cui Roccella Ionica e Gioia Tauro. Gli ultimi 5 corpi sono arrivati a Crotone la notte del 24 giugno, in un posto blindato e chiuso ai giornalisti. I corpi delle salme dovrebbero essere stati collocati nelle camere mortuarie di diversi ospedali calabresi, tra questi sappiamo esserci Locri, Polistena, Soverato, Siderno, Gioia Tauro, Reggio Calabria. Tuttavia, anche su questo, le informazioni fornite dalle autorità non sono state chiare e ulteriori camere mortuarie di altri ospedali potrebbero essere state utilizzate con questo scopo. Le procedure attivate nei giorni immediatamente successivi al naufragio hanno riguardato, in mare, le manovre per il recupero dei corpi da parte della Guardia Costiera; in terra, l’apertura di un punto informativo nel Porto delle Grazie di Roccella Ionica dove i familiari potessero recarsi per ricercare o identificare i propri parenti. Tale punto informativo dovrebbe restare attivo e operativo fino alla fine del mese di giugno. Sono stati attivati dei canali di comunicazione telefonica e mail dedicati alle famiglie alla ricerca, gestiti dalla Prefettura di Reggio Calabria e dal progetto Restoring family links della Croce Rossa. Le persone sopravvissute Le persone sopravvissute – curdo irachene, curdo iraniane, siriane – sono state destinate a ricoveri prolungati in diversi ospedali del territorio regionale, in attesa di individuare una struttura di accoglienza che eviti il passaggio in luoghi non idonei (come è stato per il naufragio di Cutro quando i sopravvissuti furono collocati all’interno delle strutture fatiscenti del Cara di Isola Capo Rizzuto).

Tra i sopravvissuti c’è Nalina, la bambina di 10 anni irachena che ha perso tutta la sua famiglia nel naufragio. Nalina si è ricongiunta con la zia materna, proveniente dalla Svezia insieme al marito. Tra gli altri sopravvissuti noti ci sono anche Ismail, siriano di 22 anni e Wafa, curdo di 20 anni. Identificazione dei corpi All’interno del punto informativo al porto, oltre ai rappresentanti della Prefettura di Reggio Calabria e della Polizia scientifica, stanno lavorando le operatrici di Croce Rossa Italiana, Medici Senza Frontiere e Save The Children che offrono supporto ai sopravvissuti e ai loro congiunti. Dopo alcuni giorni dal naufragio è stato attivato anche il servizio Restoring Family Links della Croce Rossa il cui team è impegnato nella raccolta dati utile all’identificazione dei corpi. Da quanto riportato, fin dall’inizio un campione del Dna è stato prelevato da tutte le salme recuperate, quasi tutte in avanzato stato di decomposizione. Successivamente è stato autorizzato anche il prelievo di un campione del Dna dei parenti consanguinei giunti a Roccella. Questa pratica, che sappiamo non essere mai scontata né automatica, è molto importante per garantire un’effettiva identificazione anche a distanza di tempo, per corpi che non sono più riconoscibili visivamente. Bisognerebbe garantire ai familiari che si trovano nei Paesi di origine e sono impossibilitati a recarsi in Italia di effettuare il prelievo e l’invio in Italia del Dna utile alla comparazione con quello delle vittime.

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Al momento di tutti i corpi recuperati solo una salma è stata identificata: quella di Akbari Sobhanullah, afghano di 29 anni. Delle operazioni di rimpatrio della salma non si farà carico lo Stato italiano e neanche quello del Paese di origine. La famiglia accorsa a Roccella, due cugini e uno zio della vittima, stanno in queste ore attendendo il rilascio del certificato di morte e delle autorizzazioni necessarie allo spostamento della salma, documenti richiesti insistentemente dalla famiglia che deve ripartire. Come sempre accade, è lasciato alle famiglie e alla società civile che le sostiene l’onere di dover gestire e pagare i costi per il ritorno a casa dei parenti morti mentre attraversavano i confini degli Stati europei.

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In questi giorni, mentre camminiamo sulla spiaggia adiacente al porto dove la prima vittima è stata depositata, riflettiamo sull’assenza di qualunque segno materiale di quella strage. Non ci sono resti dell’imbarcazione – ancora inabissata in alto mare – non sono visibili oggetti dei sopravvissuti o delle vittime, non ci sono messaggi di solidarietà. A malapena ci sono notizie di stampa che raccontano le mere vicende attorno alle morti. Il naufragio del 17 giugno, al contrario di Cutro, è stato completamente ignorato. Nessuna camera mortuaria con file di bare ha occupato la televisione pubblica, nessun cordoglio delle istituzioni, nessun commento delle cariche di governo e dello Stato. Da un punto di vista mediatico, dove non si sono potuti vedere i corpi, le bare, il dolore straziante, la narrazione si è ritratta lasciando un grande vuoto. A Roccella Ionica si nota il tentativo di frammentare: i sopravvissuti in diversi reparti di ospedali, i corpi distribuiti in diversi obitori di tutta la regione. I familiari, sono stati disorientati dall’assenza di informazioni certe: in queste ore stanno giungendo a Roccella da varie parti d’Europa per riconoscere i propri congiunti e, nel disbrigo delle procedure frammentate a cui sono costretti, devono spostarsi continuamente tra i diversi luoghi individuati dalla Prefettura di Reggio Calabria per le procedure di riconoscimento, identificazione e rimpatrio: porto, camera mortuaria, ospedali, comuni, luoghi di alloggio e di ristoro distribuiti in più province. Con la dispersione di corpi e famiglie su tutta la regione, è stata evitata l’incontro e la coesione tra i familiari e la costruzione di un luogo unico di ritrovo collettivo, di condivisione e di preghiera come è stato il Palamilone di Crotone, dove la sala sportiva aveva avuto funzione non solo di camera mortuaria per le 94 vittime, ma anche di luogo strategico per famiglie e società civile di riconoscimento reciproco, di condivisione, di rivendicazione di diritti, di memoria collettiva. Invece, a Roccella Jonica la strategia della dispersione esprime la volontà di affermare una gestione dell’evento, della morte e dei corpi che eviti il piano pubblico: impedire la circolazione di notizie ufficiali, la visibilità mediatica e politica del naufragio e limitare la diffusione delle parole dei familiari sembra essere la direzione che la Prefettura e le istituzioni da cui essa dipende hanno assunto. Questa strategia non è nuova: certamente è costante il tentativo di ostacolare la denuncia delle necropolitiche che caratterizzano il regime di frontiera. Come monitoriamo in Sicilia, in Sardegna, in Tunisia, nei piccoli naufragi che non fanno notizia e che vengono chiamati “minori”, nelle morti nei centri di detenzione o lungo le frontiere interne dell’Ue, si tende a nascondere voci, lotte, storie e memorie, anche attraverso l’impedimento di quegli incontri fisici tra persone, associazioni, territori, comunità.

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Nonostante questo silenzio assordante, la sera del 22 giugno una cerimonia interreligiosa organizzata dalla Chiesa locale ha attraversato il lungomare di Roccella Ionica fino a raggiungere il porto. Centinaia di cittadini calabresi e diversi familiari delle persone decedute o scomparse nel naufragio hanno marciato con delle candele in mano fino al luogo di primo approdo dei corpi. Qui si è consumato l’unico atto pubblico attorno alla strage, tra preghiere di diversi credi religiosi, parole di cordoglio e di denuncia dei sindaci locali, deposizione di fiori da parte dei volontari della Croce rossa locale. Il timore fondato è che l’attenzione su queste morti e su questi eventi cali rapidamente grazie all’occultamento politico e alla mancanza di una presa di posizione e di una mobilitazione pubblica. Il silenzio più preoccupante non è quello delle istituzioni, su cui si fonda la gestione migratoria di questi eventi, percepiti e raccontati come fatti di cronaca: bensì quello dell’opinione pubblica sempre più abituata alla morte per mano delle frontiere. Oltre i minuti di silenzio, bisogna continuare a stare su tutte le frontiere interne ed esterne, a fare rumore, a indagare le dinamiche di queste morti, a ribadire le responsabilità dietro queste stragi, i ruoli delle guardie costiere e delle polizie di frontiera, gli accordi europei con i Paesi terzi.

Soprattutto, bisogna continuare a sostenere e diffondere le parole e le azioni delle persone protagoniste di queste violenze, coloro che reclamano verità e giustizia, i sopravvissuti e le famiglie che ricordano le vittime delle frontiere, le storie che rappresentano, le rivendicazioni che incarnano, sfidando i confini e le violazioni degli stati. I familiari di Akbari Sobhanullah – unico viaggiatore della barca ad oggi identificato – hanno chiesto più volte aiuto nelle procedure di rimpatrio: “vogliamo riportare a casa il corpo, è nostro diritto, questa morte è un dolore straziante per tutta la famiglia, vogliamo almeno riportarlo a casa dove lo reclamano le persone che lo amano, la sua famiglia. Aiutateci a far sì che il corpo di Sobhanullah torni a casa”. Anche diversi familiari di vittime delle strage di Cutro, che hanno appreso della sorte di molti dei loro connazionali nel naufragio del 17 giugno scorso, hanno mandato messaggi di solidarietà e vicinanza ai parenti afghani, iraniani, curdi che – come loro stessi un anno fa – sono alla ricerca di verità e giustizia. Tra questi messaggi, ci sono le parole di Shahid Khan, pakistano, che ha perso nel naufragio di Cutro suo fratello Rahim Ullah Khan e che nella sua testimonianza inviataci dal Pakistan ha dichiarato: “non è la prima volta che un’imbarcazione che trasportava migranti affonda in mare. Conosco personalmente la condizione delle famiglie delle vittime, perché quel periodo è duro e insopportabile per loro. Chiedo ai membri della famiglia della vittima di sopportare questo momento difficile e di pregare per i vostri cari, perché loro non possono tornare da noi ma un giorno lasceremo questo mondo (…) vorrei dire al governo italiano che la migrazione irregolare nel vostro Paese è un problema internazionale. Per salvare l’umanità e il mondo, il governo dovrebbe rilasciare dei visti legali per i diversi Paesi (..)”.

Non possiamo che condividere le parole della famiglia Akbari, di Shahid e delle madri, sorelle, fratelli e padri delle vittime del regime di frontiere. In particolare, alla luce dei problemi riscontrati nell’accesso alle informazioni e sulla base delle mancanze sistemiche che sono state monitorate in questi anni rispetto alla gestione delle morti e delle scomparse delle persone migranti e straniere, le associazioni Mem.Med Memoria Mediterranea e l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione hanno provveduto a inviare una comunicazione ufficiale alle autorità competenti regionali e nazionali raccomandando di porre attenzione ad una serie di questioni rilevanti regolamentate da normative nazionali e internazionali. In particolare si sollecita che: continuino le operazioni di ricerca in mare per il recupero dei corpi; che si continui a prelevare il Dna sia dalla salme che dai familiari, unitamente alla raccolta dei dati ente e post mortem utili all’identificazione delle salme; che sia garantita la possibilità, anche posteriormente, di identificare i corpi e di seppellirli secondo la volontà e il credo espresso dalle famiglie; che la sepoltura sia tracciabile e disposta con assoluta certezza del luogo; che sia agevolata ogni procedura necessaria al trasferimento dei corpi nei paesi di origine; –che le famiglie possano essere informate debitamente e tempestivamente riguardo alle procedure in corso per il recupero di corpi, riguardo al luogo di conservazione delle salme, riguardo ai risultati della comparazione del Dna, riguardo alle procedure relative alla tumulazione e al rimpatrio; – che venga garantita adeguata accoglienza alle persone sopravvissute e ai familiari che in queste ore si stanno recando a Roccella Jonica.