Cosa c’entrano le Brigate Rosse col riformismo?

RMAG news

A me le provocazioni intellettuali di Piero Sansonetti piacciono assai. In generale. Anzi, quasi sempre. Ma certe volte no. Magari perché non le capisco. Questa ultima sul “riformismo armato” delle Brigate Rosse, che assassinando Aldo Moro avrebbero “oggettivamente” dato una mano a Enrico Berlinguer per strappare negli ultimi mesi del governo Andreotti di solidarietà nazionale, riforme di natura addirittura socialistica, per esempio, spero proprio di non averla capita. Perché, se la avessi capita, dovrei dire a chiarissime lettere che non la condivido neanche un po’, e che non comprendo quale riflessione storico-politica, anche spregiudicata, anche dolorosa, potrebbe suscitare.

Queste righe vanno dunque intese, anche se qua e là il gusto della polemica può avermi preso la mano, prima di tutto come una richiesta di chiarimenti. Forse è il caso di prendere le mosse proprio da quell’avverbio, “oggettivamente”, che Piero lascia cadere con nonscialanza, quasi non sapesse che di una marea di “oggettivamente” sono lastricati tanti dei grandi cimiteri sotto la luna del Novecento. Personalmente, se mi passa per la testa di utilizzarlo, mi mordo la lingua. Perché penso sia il caso, invece, di tenere nella giusta considerazione il lato soggettivo dei comportamenti dei protagonisti di tutte le forze in campo, e dunque, per il periodo storico davvero cruciale di cui ci stiamo occupando, anche, si capisce, delle Brigate rosse e di altri gruppi affini. A proposito dei quali, tra l’altro, ho sempre preferito parlare di “partito armato” (“una scheggia di leninismo impazzito”, scrivevo nel lontano 1977 su Rinascita) piuttosto che di “terrorismo rosso”.

Mi sarebbe piaciuto farlo, ma non ho mai avuto modo di discutere con un brigatista. Posso capire (non apprezzare, non giustificare: capire) che ritenesse giunto il tempo in cui è giocoforza passare dalle armi della critica alla critica delle armi. Non posso sapere, però, se, ed eventualmente come, pensasse possibile, in Occidente, in Italia, sessant’anni dopo l’Ottobre, la presa di un Palazzo d’Inverno peraltro impossibile da individuare. Credo di sapere, però, se gli avessi dato del riformista, seppure quanto mai anomalo, si sarebbe sentito, e dal suo punto di vista a ragione, mortalmente offeso. Se è per questo, come Piero del resto riconosce, una simile definizione sarebbe andata a dir poco assai stretta pure a Enrico Berlinguer. E per motivi assai diversi non vi si sarebbero riconosciuti né Amintore Fanfani né, tanto meno, l’allora segretario democristiano Benigno Zaccagnini, secondo il quale la Dc non era più solo il degasperiano partito di centro che guarda a sinistra, ma anche, e soprattutto, una forza “gradualisticamente rivoluzionaria”.

Ora, può anche darsi che tutti, da Renato Curcio a Fanfani, fossero vittime di una falsa coscienza di sé e dei pezzi di società che guidavano o (nel caso delle Br) ambivano a guidare. Ma, onestamente, chi ha vissuto le passioni cocenti di quegli anni, fatica a credere che, eccezion fatta per Aldo Moro e, per motivi opposti, per Bettino Craxi, vi imperasse incontrastata l’eterogenesi dei fini. O, più prosaicamente, che i protagonisti politici dell’epoca, brigatisti compresi, fossero riformisti a loro insaputa, un po’ come i nativi americani di Cesare Pascarella, che “c’erano nati, ne l’America, e manco lo sapevano”. Anticipo l’obiezione.

Tutto vero, ma resta il fatto che, dopo l’assassinio di Moro, nel volgere dei pochi mesi in cui i comunisti restano nella maggioranza, Berlinguer riesce a strappare le riforme più incisive della storia repubblicana, così incisive da rendere l’Italia, che però “manco lo sapeva”, un paese socialista o quasi. Potrei contro-obiettare che alcune di queste riforme (in particolare quella del diritto di famiglia, varata nel 1975, quando a palazzo Chigi c’era, guarda caso, Moro) erano state adottate in precedenza, che l’iter parlamentare di alcune altre (in particolare la legge Basaglia) era già assai avanzato, o che altre ancora (in particolare la 194 sull’aborto) sono state adottate più tardi. E magari potrei anche far notare che forse ai presunti cripto-riformisti delle Br, impegnati com’erano nella lotta contro lo Sim, Stato imperialista delle multinazionali, dei diritti delle donne o dell’abolizione dei manicomi tutto sommato non importava troppo. Ma in realtà non è questo il punto.

A prendere alla lettera il ragionamento di Piero, bisognerebbe derivarne, paradosso per paradosso, che chiunque oggi riesca a fruire delle prestazioni di quel poco che resta del Servizio sanitario nazionale dovrebbe almeno in cuor suo ringraziare non solo Berlinguer, ma pure il “riformismo armato” delle Br che, togliendo di mezzo Moro, gli dettero (“oggettivamente”, per carità) una mano a vincere in extremis la battaglia per una riforma sanitaria avanzata, civile, ispirata al principio secondo il quale la salute è un diritto universale e non certo al culto del libero mercato. Il che, francamente, mi parrebbe un po’ eccessivo. Ma basta con il gioco dei paradossi. Fino al giorno del rapimento, per il togliattiano Berlinguer, Moro era qualcosa di più di un interlocutore politico: una sorta di nuovo Giolitti. E le Brigate rosse, che uccidevano in nome del comunismo, un nemico mortale. Nei cinquantacinque giorni della prigionia del leader democristiano, non cambiò idea, né sulle Br né su Moro.

Non saprei dire se, facendosi protagonista della linea della fermezza, e mettendo quindi in conto il sacrificio del leader democristiano, ebbe chiaro che, con Moro, finivano la politica di unità nazionale e anche la strategia del compromesso storico. Un minuto dopo il ritrovamento del corpo di Moro in via Caetani, però, ebbe chiaro che dalla maggioranza il Pci doveva uscire il più presto possibile. Se impiegò qualche mese per farlo, fu certo anche per le resistenze che incontrò nel partito, ma soprattutto (e qui Sansonetti ha ragione) per spingere l’acceleratore su riforme, prima tra tutte quella della sanità, da poter esibire al suo elettorato come la prova provata che, dalla politica delle larghe intese che stava archiviando per imbarcarsi verso lidi sconosciuti, il Pci era comunque riuscito a portare a casa dei risultati importanti. Oggi a ricordarcelo siamo solo noi vecchietti, ma è difficile trovare parole per descrivere lo sconcerto, la sfiducia, l’amarezza che regnavano in quei mesi tra i militanti e gli elettori comunisti. Certo, dopo tante vittorie il Pci si avviava a un insuccesso elettorale pressoché scontato: il problema era di circoscriverne la portata, e in ogni caso qualche punto in percentuale era niente rispetto alla possibilità concreta di perdere l’anima.

Così ragionò Berlinguer, ed è difficile dargli torto: semmai il problema (ma questo è un altro discorso) è che non aveva alcuna strategia di ricambio rispetto a quella, ereditata da Togliatti, che aveva sviluppato negli anni precedenti. In ogni caso: se si accetta anche a grandi linee questa ricostruzione quanto mai sommaria, si fatica a capire quale ruolo “oggettivamente” positivo vi abbia mai avuto il partito armato. Che, sempre “oggettivamente”, ha contribuito in misura determinante a mettere in crisi definitivamente l’idea stessa di rivoluzione, mai apertamente archiviata dal Pci, tant’è che lo stesso Berlinguer parlava di una “seconda tappa della rivoluzione democratica e antifascista”. Ma, “soggettivamente” e “oggettivamente”, ha sempre combattuto senza tregua un possibile esito riformista della lunga storia del movimento operaio italiano (cito per tutti l’assassinio di Ezio Tarantelli). E in questo è stato, dal suo punto di vista, assolutamente conseguente. Perché ha sempre considerato i riformisti, radicali o moderati che fossero, i suoi nemici principali.

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