Cosa è Telemeloni, il format piagnone autoprodotto dalla premier che fa l’imitazione di se stessa…

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Il palinsesto di TeleMeloni è interamente nel volto della protagonista; la titolare. Irrilevante che nessuno, seppur dotato di fantasia, riesca retroattivamente a immaginare, metti, TeleDeGasperi, TeleTogliatti, TeleMoro, TeleAndreotti, TeleAlmirante. Forse anche, pensando a tempi più recenti, TeleDraghi e addirittura TeleRenzi.

I più perspicaci, pensando ai primi citati, diranno che per riuscire nello scopo occorra la faccia giusta, aderente al populismo che trasfiguri il leader in influencer, la dialettica in selfie.

Al tempo di Almirante, volendo fare un esempio prossimo alla radice culturale di “solo Giorgia”, per esistere televisivamente, occorreva infatti attenersi a Tribuna politica o Elettorale.

Quanto alla genesi di TeleMeloni va precisato che l’uso del nome che si fa format risponde alla figura retorica dell’antifrasi: prendere in prestito un appellativo polemico ricevuto, ribaltandone il significante negativo iniziale. TeleMeloni, appunto.

Segno d’occupazione dello spazio mediatico per uso d’agit-prop, o anche, in questo caso, assodato ancora il DNA dell’intestataria unica del canale, Minculpop sul desk di Facebook.

Se una citazione è qui doverosa, con TeleMeloni torna in mente un film dove Peppino De Filippo, parlamentare missino, irrompe in diretta truccato da ballerina di fila per l’appello al voto, colpa o merito di un crudele regista comunista lì interpretato da Walter Chiari.

Nel nostro caso, Giorgia Meloni sembra avere fatto tutto in proprio. Sia fondotinta sia copione. Altrettanto trovare le parole della destra-destra destinate a un elettorato che indica nell’altro, l’opposizione, inadeguatezza: derisione e ammiccamenti.

Parole lecite se in bocca al galoppino, meno in chi, è il caso della titolare dell’emittente, si trovi in posizione apicale, a chi occupi il governo.
TeleMeloni è invece comizio “confidenziale”, talkshow monoposto lontano da ogni possibile contraddittorio: un CAF mediatico.

Espediente spettacolare per mantenere intatta l’idea “piagnona” che gli sforzi dell’esecutivo siano “sabotati” dai nemici inetti della Nazione, “quelli di prima”. L’arma del vittimismo subito convincente se rivolta a un pubblico che ha fatto della frustrazione ancora populista il proprio assillo quotidiano.

Il primissimo piano di Meloni accompagna il discorso con gestualità allusiva rionale, capitolina; drammaturgia da “famo a capisse”, direbbe il semiologo di Tor Sapienza.

Adeguata al pubblico cui si rivolge, musica leggera per l’udito di un elettorato, in atto o potenziale, che fino a un istante prima consultava balletti su TikTok, gattini parlanti su X, torve convinzioni sull’Europa “ingrata”, considerazioni sulle “zecche”; nazionalismo da selfie.

Nella “terra di mezzo” del suo discorso, vive il dubbio cinestesico che non della Meloni si tratti, semmai di un’imitatrice, forse Francesca Reggiani, intenta a marcarne lessico e prossemica da Roma Sud o magari, perché no, lo stesso Maurizio Crozza.

Invece è proprio “Giorgia” su sfondo tricolore soffuso, a offrire un palinsesto che coincide con il proprio volto; un messaggio univoco, “uninominale”. Promo e prove tecniche di premierato.

“Io sono Giorgia”, sinonimo dell’Italia “reale”, e non di “quegli altri” che finora avete dovuto subire in nome dell’egemonia trascorsa tra rave e falsa tolleranza.

Cioè, parole sue, “la sinistra scandalizzata perché, ironicamente, ho lanciato ‘TeleMeloni’ sui miei social per deridere la fake news, smentita dai dati e dai numeri, di una Rai a me asservita. O forse pensano che in questo loro mondo ‘democratico’ puoi essere accusato di tutto, ma non devi avere il diritto di difenderti”.

L’Italia orgogliosa di avere riportato a casetta sua Chico Forti, l’Italia del “tra di noi ci capiamo”, l’Italia del condominio, visto che da oggi siamo tutti fratelli, “fratelli d’Italia”. Per i diritti delle sorelle e del mondo LGBTQI+ non c’è tempo, sono cose da “radical chic”. E per adesso può bastare, a domani.