Cosa sta succedendo in Venezuela: sciopero generale per ottenere nuove elezioni

RMAG news

Senza l’appoggio delle forze armate nessuno può resistere a lungo nel braccio di ferro contro il regime a Caracas. Perché il Venezuela è un arsenale a cielo aperto, la polarizzazione politica è fortissima e l’esplosione di una guerra di tutti contro tutti è sempre dietro l’angolo. È questo il principale problema dell’opposizione al chavismo. Ed è un problema sia dell’opposizione di destra riunita ora attorno alla figura di Maria Corina Machado (bianca, di una ricca famiglia di Caracas est, in ottimi rapporti con la destra del partito repubblicano statunitense e amica dei Bush, sostituita alle elezioni dal 74enne Edmundo González perché resa ineleggibile da un trappola del regime) sia del mondo variegato, sotterraneo e mai considerato in Europa dell’antichavismo di sinistra che resiste da vent’anni alla cooptazione, alla galera, agli omicidi di militanti e sindacalisti.

Più tempo passa dalle elezioni politiche del 28 luglio, più tempo di tutelarsi ha la cerchia di generali di cui Maduro è marionetta. Più tempo hanno i militari che hanno in mano il presidente venezuelano per articolare la repressione. È anche per guadagnare tempo che a Maduro conviene il muro contro muro. Per lui il costo personale di una resa è molto più alto del costo dell’asserragliarsi chiudendosi a riccio. Nessun salvacondotto gli darebbe la garanzia di sfuggire a lungo alla galera per la lista di reati di cui può essere imputato in patria e alle investigazioni della agenzia statunitense sul narcotraffico. E lui, come ha già fatto altre volte negli ultimi nove anni, sta scommettendo sul rifiuto di ogni trattativa facendo asse con la sola e solita Cuba che gestisce da vent’anni i servizi di sicurezza venezuelani, l’unica cosa che funziona a Caracas al momento.

Il Venezuela è di nuovo sull’orlo della guerra civile. Fortissimo è il sospetto che il regime abbia commesso una frode nelle elezioni politiche del 28 luglio per mantenere le forze armate al governo con Maduro alla presidenza. Maduro, eletto nel 2013 dopo che Chávez l’aveva indicato per la successione negli ultimi suoi mesi di vita all’Avana, è stato proclamato vincitore lunedì scorso dopo un ritardo di molte ore nel conteggio. Il Consiglio nazionale elettorale è stato di fatto sostituito da magistrati del Tribunale supremo che hanno dichiarato Maduro vincitore senza dare i dati suddivisi per centro elettorale, come è stato sempre fatto in passato perché col voto elettronico i risultati sono disponibili in pochissimo tempo, ma dando solo una percentuale: vittoria con 9 punti di vantaggio sullo sfidante. Chissà perché il regime non aveva previsto che l’opposizione si sarebbe organizzata contro la possibilità di una frode. L’opposizione aveva chiesto infatti a tutti i suoi rappresentanti di lista di fotografare i verbali e di inviarli a Caracas, dove sono stati caricati in rete in modo che chiunque potesse consultarli.

Secondo quel conteggio González ha vinto con un vantaggio molto ampio. Non c’è prova che anche questi risultati non siano stati manipolati. Non c’è modo di escludere che siano stati dati numeri fasulli da entrambe le parti. Di fatto il Venezuela è di nuovo stritolato nella rissa tra le bande militari di trafficanti varie al governo e la vecchia oligarchia di estrema destra con i patrimoni al sicuro a Miami. Una parte dell’opposizione che domenica ha votato González sta cercando ponti con i movimenti dell’antichavismo di sinistra per organizzare insieme uno sciopero generale e chiedere poi nuove elezioni. La via per una alchimia politica così ardita è molto stretta e la possibilità dell’esplosione sociale è dietro l’angolo. Il conflitto coinvolge tutta l’America Latina, non solo perché un terzo dei venezuelani sono emigrati negli ultimi dieci anni fuggendo ovunque nel continente dall’Argentina al Messico. Ma perché a cercare una soluzione politica alla crisi s’è messo, al solito, il presidente brasiliano Lula Da Silva, grazie alle pressioni del quale i governi non di destra latinoamericani in carica e anche i leader regionali più legati al chavismo, come l’ex presidente argentina Cristina Kirchner, che ha ricevuto fiumi di petrodollari chavisti per le sue campagne elettorali, stanno chiedendo a Maduro: «In nome dell’eredità di Hugo Chávez, mostra i risultati del voto di domenica disaggregati: centro elettorale per centro elettorale». Lula sta facendo chiedere a Maduro da tutti gli alleati di lungo corso di Caracas – tutti foraggiati dai finanziamenti venezuelani – di mostrare nel dettaglio i verbali che il regime non ha ancora mostrato. L’intenzione di Lula è di offrire così una via d’uscita negoziata al chavismo.

Washington ha scelto invece di mettere subito all’angolo Maduro e costringerlo a prendere decisioni rapide dichiarando la sua sconfitta. L’accordo pre-elettorale, discusso tra emissari di governo e opposizione prima in Qatar, poi alle Barbados e infine in Messico, era che il regime avrebbe permesso ai candidati dell’opposizione di candidarsi impegnandosi a tenere elezioni trasparenti. In cambio gli Stati Uniti avrebbero revocato le oltre 900 sanzioni sul Venezuela e sui singoli esponenti del regime (blocchi dei beni, divieto a metter piede negli Usa). Il presidente venezuelano dice di essere vittima di una cospirazione internazionale, un colpo di stato “di estrema destra” in cui coinvolge i magnati Elon Musk e Jeff Bezos. La solita vecchia retorica buona per le reti sociali in cui sta scatenando la capillare repressione del dissenso. La scuola è sempre quella cubana, cioè quella sovietica: denuncia il tuo vicino. Tutti i militanti sono stati esortati a denunciare con nome e cognome i conoscenti che partecipano alle manifestazioni dell’opposizione e che in rete diffondono critiche al regime.

Sia il governo del Brasile, che quelli del Messico, del Cile e della Colombia hanno reagito con fastidio al precipitarsi di Joe Biden nell’annunciare vincitore il candidato dell’opposizione bruciando la possibilità di una soluzione politica e togliendo margine agli amici di Lula al Dipartimento di Stato statunitense che stanno lavorando a disinnescare la miccia. Essere maldestri in un blitz contro Maduro è pericoloso perché il rischio di un massacro di civili è molto alto. Il regime non dispone solo delle sue tante polizie e delle forze armate. Ha il controllo anche di varie milizie composte da civili, più interessate dell’esercito a difenderlo. “Colectivos chavistas”, si chiamano. E non sono tutti uguali. Li differenzia innanzitutto la loro origine, il loro rapporto con le forze armate, con la polizia politica (Sebin) e con le forze speciali (Faes).

Quelli direttamente dipendenti dal regime sono meglio armati degli altri. Il loro arsenale viene dal contrabbando di armi gestito da militari. Hanno lo stesso equipaggiamento dell’esercito irregolare del narcotraffico. Alcuni di loro fanno parte dell’esercito del narcotraffico, sono mercenari. Alcuni hanno lavorato in passato anche per l’antichavismo più radicale – anch’esso dotato di bande armate, terribilmente violente – e hanno finito per trovare conveniente essere risucchiati nell’apparato del regime. I loro capi sono militari con incarichi di governo. Ma dipendendo da singole fazioni interne al palazzo di Miraflores, non stanno tutti dalla stessa parte. Quindi non necessariamente, non sempre e non a qualsiasi condizione difendono Maduro. Dodici ministri del governo sono militari, nove ancora in servizio, tre sono militari ritirati. Militari sono molti governatori (il Venezuela ha una struttura statale federale) e soprattutto i capi di tutte le grandi corporazioni che gestiscono l’import ed export e i relativi rubinetti di dollari. Ci sono poi i “colectivos” che nascono molto prima dell’avvento di Hugo Chávez al potere – i Tupamaros e la Pedrita sono i principali a Caracas – con origine nei gruppi guerriglieri venezuelani degli anni Sessanta. Questi hanno una relazione complessa con il regime. Sono fortemente ideologizzati. Si sentono i chavisti originari, rivendicano un’autonomia dalle gerarchie di governo.

Chávez li usava per mantenere l’ordine pubblico nei quartieri popolari e nelle baraccopoli. Maduro li ha continuati a usare consentendo loro di gestire in parte la distribuzione delle ceste basiche di cibo (e il relativo mercato di contrabbando) insieme ai militari. Ma da anni ormai non ci sono più soldi per foraggiare tutti. Il loro appoggio varia al variare delle condizioni che li tengono legati alle fonti di profitto. Possono anche non fidarsi di Maduro, ma fanno comunque parte dell’apparato repressivo del chavismo e nei momenti ad alto conflitto degli ultimi venticinque anni hanno finito sempre per schierarsi a difesa di Miraflores. La parte più feroce della repressione è di solito affidata a dei finti “colectivos”, gruppi nati molto dopo l’esordio del chavismo, spuntati insieme alle operazioni delle forze speciali nei “barrios” che il regime ha chiamato “Olp” (Operazioni per la liberazione del popolo): non sono altro che incursioni di forze speciali nelle baraccopoli, non diverse da quelli che fanno i battaglioni d’élite nelle favelas brasiliane. Le Olp si appoggiano a questo genere di “colectivos”, indistinguibili dagli altri perché sempre di civili armati in motocicletta si tratta.

Maduro è consapevole della sua intrinseca debolezza, sa di essere dipendente dall’equilibrio di potere tra bande interne al potere chavista. Sa di essere ostaggio a volte dell’una, a volte dell’altra.
Ha un ruolo formale di presidenza funzionale al mantenimento in vita dei traffici dei vari uomini forti del regime, sono loro a tenere in piedi lui, non lui a comandare su di loro. Sa che lo difendono fin quando funziona come garanzia della sopravvivenza dei margini di profitto di ciascuno. Se si incrina l’equilibrio, addio Maduro. Anche perché Maduro non ha una relazione diretta con l’esercito e con le milizie. È un ex sindacalista della Metro di Caracas, l’Olimpo delle forze armate lo disprezza da sempre, i suoi rapporti con i militari e con le milizie sono mediate da altri. Dettaglio che nel momento delle prove di forza in Venezuela conta tantissimo. E la prova di forza è a un passo, tanto che decine di soldati sono stati schierati in tutto il Venezuela a protezione delle statue di Hugo Chávez, simbolo di quella che fu la Revolución bonita.

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