Così Corte Suprema e Consulta indossano la maglia del potere unico

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La Corte Suprema che concede una parziale immunità a Trump e la Consulta che invoca “la necessità” di una nuova forma di governo mostrano quanto friabile sia il terreno su cui poggia la grande costruzione occidentale del costituzionalismo. Il mito più seduttivo, e però in sé fragile, della civiltà liberale, cioè la certezza del diritto affidata al regno impersonale delle leggi, traballa di fronte a una volontà di potenza che, ogniqualvolta serve alla causa, strapazza le regole e resuscita il volto discrezionale del governo degli uomini.

Finché gli attori condividono i valori essenziali di una Repubblica pluralista, l’equilibrio tra forma e sostanza regge riuscendo a sterilizzare con successo l’abuso strisciante di potere. Quando invece brancola la responsabilità dei protagonisti in campo, si erode il sottile muro che protegge le garanzie delle libertà dalla conquista di una influenza eccedente. Cominciano allora le prove generali di democrazia sovrana, e neppure la cosiddetta “invenzione di Kelsen”, la Corte costituzionale, possiede più la forza per trattenere le competenze scolpite nei principi fondamentali. L’unità dinamica di un ordinamento democratico, che distribuisce funzioni specifiche ad organi tra loro efficacemente separati benché riconducibili tutti alla sovranità popolare, per proporsi nel tempo senza vacillare e resistere ai venti che spingono in opposte direzioni, richiede il supporto di una cultura politica omogenea. Nelle giunture critiche, però, si sbriciolano proprio le connessioni valoriali che preservano i poteri di garanzia dagli appetiti irregolari, e così anche la condotta dei custodi della Costituzione tende ad inclinare alla fedeltà partigiana.

Negli Stati Uniti la terzietà del massimo organo di controllo costituzionale appare minata dopo le nomine presidenziali concepite secondo un piano acquisitivo di dominio posto al servizio dell’arbitrio personale e di legami di fazione. Reclutati tra i nove giudici soltanto i più obbedienti alle disposizioni di una parte sleale dell’amministrazione, la finzione stessa di indipendenza della Suprema Corte si sgretola e un pilastro così delicato del bilanciamento dei poteri si decompone. Con una maggioranza politicizzata, che detta sentenze equivoche a colpi di 6 contro 3, diventa possibile riconoscere ex post delle inedite potestà di guida legibus soluta a un comandante colto in flagranza durante un assalto armato al Campidoglio. Il continuum illiberale che congiunge l’ex inquilino della Casa Bianca e la Corte Suprema aspetta il voto di novembre per ricevere dalla irresistibile acclamazione popolare una legittimazione dello strappo costituzionale eclatante e sanare la macchia dell’attacco violento al cuore dello Stato.

In un tale disegno, il popolo avanza come un motore unico che fa saltare gli arcaici ingranaggi della separazione dei poteri. Si dilegua dunque il nucleo della ragione giuridica moderna che, a partire per l’appunto dagli Stati Uniti, ha progettato i confini dell’autonomia del diritto dalla invasività dell’occasionalismo politico. La situazione di eccezione lacera in un attimo le più auree procedure e, nel deserto di solidi argini legali, l’autocrate può danzare come un leader dal volere illimitato. Anche a piazza del Quirinale il presidente della Corte esce dai puntuali compiti di coordinamento interno dell’organo e, oltrepassando la sofferente demarcazione diritto-politica, invita a seguire l’onda anomala per riscrivere la forma di governo, che pure è un segmento qualificante della Costituzione di cui egli è tra i guardiani. Prima ancora che “la madre di tutte le riforme” sia approvata, e produca l’effetto ubriacante di un capo elettivo che come la santa trinità unifica i tre poteri in un corpo solo, la quinta carica dello Stato provvede a delegittimare il regime parlamentare così come vigente dal 1948.

La sua pubblica sollecitazione a realizzare una “necessaria” manutenzione o revisione della seconda parte della Costituzione postula che nella Carta esista un vuoto normativo, o peggio un vizio, e che quindi sia del tutto irrazionale la comparsa di una barriera come quella eretta nei referendum costituzionali del 2006 e del 2016. Spetta alla Consulta esortare – come spesso fa, restando purtroppo inascoltata – il legislatore a colmare i “buchi” riscontrabili ad esempio in materia di diritti civili, a modificare norme potenzialmente in contrasto con la lettera e lo spirito della Costituzione. Tuttavia non rientra nelle sue attribuzioni di potere costituito invocare, come se fosse un vorace potere costituente, una nuova forma di governo.

Dinanzi a un conflitto aspro, che si concluderà solamente nel referendum altamente divisivo, il presidente della Corte ha preferito tramutarsi in un giocatore politico. Se si elimina dal novero stesso delle possibilità il mantenimento dell’attuale circuito cittadini-parlamento-governo, a quel punto scarsa legittimità vanta la posizione di chi, con pieno diritto, non si rassegna al “necessario”. L’accusa di conservatorismo costituzionale può venire da tutti, non certo però dalla Consulta, la quale non può evocare il “necessario” senza proiettarsi oltre la Carta. Quando ciò accade, e per paradosso proprio la difesa della Costituzione si converte in un atto incostituzionale, si spezza un prezioso congegno del garantismo e l’occasionalismo politico più smodato finisce per annichilire le residue libertà.