De Gasperi, 70 anni fa moriva il leader DC: aspro, geniale, fondatore della nostra democrazia

RMAG news

Se l’Unità chiede a un democristiano come me di scrivere qualche parola a proposito di Alcide De Gasperi è segno che quel suo “centro che guarda a sinistra” deve aver fatto un lungo tratto di strada. Fino a meritarsi una celebrazione diffusa e quasi unanime, a cui concorrono a questo punto – 70 anni dopo la sua scomparsa – le voci più diverse della faticosa democrazia dei nostri giorni.
A dirla in breve, brevissimo, De Gasperi fu il fondatore di questa nostra democrazia. Non da solo, ovviamente. E non certo con l’applauso di tutti. Anzi, egli ebbe molti nemici. E incontrò qualche insofferenza anche dalle sue stesse parti. Ma nel suo caso si può dire che la storia gli abbia dato largamente ragione. Tant’è che il coro degli elogi postumi sembra quasi lo spartito di una democrazia del consenso. E cioè quella sorta di idillio che tutti andiamo cercando e che quasi tutti riusciamo ogni volta a mandare in fumo.

Così De Gasperi finisce per essere quasi la coscienza della nostra politica. Sia di quella “buona”, che nel suo nome vorrebbe celebrare le proprie virtù, che di quella “cattiva”, che invocando il suo nome vorrebbe nascondere i propri vizi. Un tripudio postumo che lui stesso non avrebbe cercato e che molto probabilmente lo avrebbe meravigliato. Il fatto è che De Gasperi era una figura austera, volitiva, per niente accomodante. Era capace di molte durezze, all’occorrenza. Governava il consiglio dei ministri con un tratto decisionista che i suoi colleghi mal sopportavano. Esortava un po’ ruvidamente i suoi oppositori nella Dc a “mettersi alla stanga”. E arrivò a muovere obiezioni politiche perfino a papa Pio XII che cercava di spingerlo a fare alleanza con l’estrema destra per sbarrare il passo ai comunisti che parevano sul punto di conquistare il Campidoglio. Alla vigilia dello scontro cruciale del 18 aprile 48 Togliatti annunciò che pensava di comprarsi un paio di stivali chiodati con i quali intendeva dare un calcio nel sedere al suo grande antagonista. L’indomani si contarono i voti e gli stivali rimasero nell’armadio togliattiano. Sapendo peraltro che De Gasperi, da parte sua, di stivali di quel tipo non avrebbe mai fatto uso.

Il dopoguerra democratico e degasperiano prese forma intorno ad alcune idee forza. In politica estera, l’Europa e l’atlantismo. In politica economica, un liberismo ben temperato. E nella quotidianità governativa quel “centrismo popolare” che precludeva ogni possibilità di collaborazione con quelle forze che all’epoca si sarebbero dette antisistema. Non fu la perfezione. Fu però la migliore imperfezione che si potesse imbastire in quelle durissime condizioni. In un mondo diviso dalla guerra fredda. In un paese ancora cosparso di macerie. In una politica nutrita di molti veleni ideologici. E in un partito, il suo, che faticò non poco a riconoscere e a condividere appieno la sua leadership. I fascisti lo avevano irriso a suo tempo come un “austriacante”. Non lo era affatto, lui che aveva mosso i suoi primi passi come un irredentista. Però era “asburgico”, questo sì. Europeista e mitteleuropeo. E quando parlava in tedesco a tu per tu con Adenauer e Schumann è assai probabile che in quella circostanza si sentisse particolarmente a casa.

Contrastò con astuzia quella parte del suo partito che era rimasta legata alla monarchia. Volle che la Repubblica nascesse dal referendum per dissipare ogni vertenza da parte dei legittimisti di casa Savoia. Ed ebbe l’astuzia di non confidare a nessuno, neppure ai suoi familiari, il voto che nel segreto dell’urna avrebbe espresso in favore della Repubblica. Contrastò altrettanto, sul versante opposto, l’integralismo di una larga minoranza democristiana che avrebbe preferito far tutto da sé, governando in solitudine senza aprire le porte a quei partiti laici con cui si diede vita alle coalizioni centriste della prima legislatura repubblicana. Fu anche quella scelta, astuta e lungimirante, che impedì una tardiva riedizione dello scontro medievale tra guelfi e ghibellini.

Il suo costume personale era sobrio fino all’eccesso. Si ricorda quel primo viaggio negli Stati Uniti, nel 1947, munito di un cappotto non suo, rivoltato e adattato per l’occasione. E si ripetono sempre quelle frasi che offrono ancora oggi a dirigenti politici privi di una propria creatività l’occasione per far bella figura. La prima: “Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista guarda alle prossime generazioni”. La seconda: “Occorre promettere sempre meno di quello che si è sicuri di poter mantenere”. Parole evocate da tanti e disattese da tantissimi. Negli anni di Salò, Mussolini, che a suo tempo lo aveva fatto incarcerare, si lasciò andare a una previsione: “Dalla Dc non possono che venir fuori due uomini: De Gasperi e Gronchi. Il primo è un abile accordatore e non mancherà di trovare un’armonia qualsiasi purché ne possa trarre un sufficiente motivo per governare alla Giolitti”. Non proprio un complimento, ma almeno un riconoscimento.

In realtà De Gasperi fu più cavouriano che giolittiano. Più europeista che nazionalista. Più uomo di Stato che di governo. Più uomo di governo che di partito. Più uomo solo che capocordata. La sua politica fu sempre un accorto, felpato e pacifico attraversamento di frontiere. Guidato però dal buonsenso e dal passo metodico e paziente del montanaro. Un giornalista tutt’altro che democristiano, Indro Montanelli, gli chiese un giorno di poterlo intervistare a casa sua. De Gasperi preferì riceverlo in ufficio. La conversazione finì con una sorta di confessione da parte dell’intervistatore: “Sento dinanzi a lui un gran rispetto senza nessun timore… esattamente il contrario di quello che sentivo dinanzi a Mussolini: un gran timore senza rispetto”. Mi piace pensare che infine anche Togliatti dovette essersi pentito di aver evocato quegli scarponi chiodati. Che De Gasperi peraltro non gli consentì mai di indossare.

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