Delitto Matteotti: come fu rapito e ucciso il deputato socialista

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Giacomo Matteotti fu rapito in pieno giorno, nel pomeriggio del 10 giugno 1924, sul lungotevere Arnaldo da Brescia. È una certezza, una delle poche nel delitto e nella successiva crisi che segnarono di fatto l’avvento del regime fascista. La squadra che lo sequestrò era composta da cinque persone guidate da Amerigo Dùmini, quello che si presentava come “Dùmini, 9 omicidi”: tutti ex Arditi e tutti fascisti della prima ora. Altri tre fascisti erano appostati nei dintorni, con funzioni di copertura. Non erano una squadraccia qualsiasi: erano “la Ceka”, ironicamente battezzata come la polizia segreta sovietica, un gruppo di killer e picchiatori nato alcuni mesi prima su decisione di Mussolini e di fatto agli ordini del Viminale. Caricarono il sequestrato su una Lancia Lambda Limousine a 6 posti sotto gli occhi di diversi testimoni.

Il deputato socialista, non a caso soprannominato “Tempesta”, si difese subito, riuscì quasi a sfuggire ai sequestratori, atterrato da un colpo alla testa continuò a dibattersi anche dopo essere stato caricato in macchina. Urlò, ruppe con un calcio il vetro divisorio interno all’auto di lusso, riuscì a gettare dalla macchina, probabilmente come segnale, il tesserino da deputato. Nel corso della colluttazione uno dei rapitori lo accoltellò a morte. La squadra scarrozzò il cadavere per ore in cerca di un luogo adatto a disfarsi del cadavere. Alla fine scelsero un bosco a Riano, 25 km da Roma. Privi degli strumenti adatti dovettero scavare una fossa stretta e molto poco profonda adoperando il crick dell’auto e altri strumenti di fortuna. Il cadavere, nudo, fu ritrovato solo due mesi dopo, il 12 agosto. Le certezze finiscono qui.

La principale zona d’ombra, sosteneva lo storico Renzo De Felice nella sua monumentale biografia di Mussolini, riguarda le ragioni del sequestro ed è così ancora oggi. Forse Matteotti, che era già stato sequestrato e brutalizzato da una squadraccia fascista nel marzo 1921, doveva essere punito per il discorso fiammeggiante con il quale il 30 maggio, a Montecitorio, aveva denunciato il clima di sopraffazione e violenza nel quale si erano svolte le elezioni del 6 aprile, stravinte dal listone nel quale erano confluite le liste di destra, chiedendo di invalidarle. Di sicuro quel discorso aveva irritato il duce: “Che fa questa Ceka? Che fa Dùmini? Dopo quel discorso non dovrebbe più circolare”, fu la reazione a caldo. Ma forse, invece, a condannare il leader socialista non furono le parole già pronunciate ma quel che si accingeva a dire in aula il giorno seguente, in un discorso già annunciato come molto importante.

Matteotti intendeva certamente denunciare un giro di tangenti pagate dalla Sinclar Oil per un giro di ricerche ed eventuali forniture di petrolio. È voce ricorrente sin da allora che, spostatosi in segreto a Londra nei mesi precedenti, avesse trovato le prove di coinvolgimenti ad altissimi livelli: il sottosegretario agli Interni e gerarca Aldo Finzi, che come ebreo sarebbe stato poi fucilato alle Fosse Ardeatine, Arnaldo Mussolini, fratello del duce, ma forse lo stesso Benito e addirittura il re, Vittorio Emanuele III, che sarebbe stato azionista della Sinclair Oil. Sono le due ipotesi principali ma ce ne sono altre, incluso un colpo di mano del fascismo intransigente furibondo per il tentativo di “normalizzazione” e di apertura alle confederazioni sindacali nel quale era impegnato Mussolini alla vigilia della crisi.

Incerte anche la volontà omicida o meno e l’identificazione del mandante. Lo storico Mauro Canali è convinto che l’assassinio fosse in programma sin dall’inizio, ma la tesi contrasta con la messe di grossolani errori commessi dalla Ceka. Nei giorni precedenti erano passati e ripassati sotto casa del deputato, si erano appostati, avevano studiato gli orari: con la stessa macchina sulla quale si sarebbe poi consumato il delitto e con la targa in bella vista. Li notarono in molti e i portieri di un palazzo presero anche il numero della targa, furono individuati così. La macchina, poi era stata presa a nolo, senza coperture da Filippo Filippelli, direttore del Corriere Italiano, il giornale per cui lavorava Dùmini, ex segretario personale di Arnaldo Mussolini. Difficile spiegare anche l’assenza di strumenti adatti a scavare la fossa, particolare che per Canali si giustifica con la necessità di addurre la non premeditazione se fossero stati presi ma è una spiegazione che suona molto tirata per i capelli, e il non aver individuato il precedenza il luogo della sepoltura. Per quanto arduo sia immaginare cinque arditi che non riescono ad avere ragione di un uomo peraltro non particolarmente robusto senza ricorrere al coltello, probabilmente andò proprio così.

L’ordine non partì dal duce: su questo la quasi totalità dei ricercatori concorda. Mussolini stava cercando la pacificazione, aveva offerto al sindacalista Alceste De Ambris un posto al governo e intavolato trattative con la Cgl. Di tutto aveva bisogno tranne che di un delitto politico di immenso clamore. Parlò di “cadavere gettatomi tra i piedi” ed era quasi sicuramente sincero. È probabilmente giusta la versione data da Cesare Rossi, la più importante tra le teste che il duce sacrificò per cercare di domare lo scandalo e quello che la prese peggio, tanto da scrivere un memoriale pieno di accuse che fu pubblicato da Giovanni Amendola su Il Mondo il 27 dicembre. L’ordine fu impartito da Giovanni Marinelli, tesoriere del partito, convinto di assolvere così alla volontà manifestata da Mussolini col suo sbotto di rabbia.

Ma la sincerità del duce si ferma qui. Sapeva tutto del delitto già dal giorno dopo: Dùmini aveva raccontato tutto al segretario personale del duce, Arturo Benedetto Fasciolo, la sera stessa dell’omicidio. Mussolini, che era già comunque responsabile politico e morale dell’omicidio, fece il possibile per coprire le responsabilità del nascente regime: impose le dimissioni a Finzi e a Cesare Rossi, ordinò l’arresto di Dùmini e degli altri responsabili del delitto, rimosse l’ex quadrumviro Emilio De Bono dal comando della polizia, abbandonò lui stesso l’interim del ministero degli Interni per nominare ministro il nazionalista Federzoni, fascista dell’ultimissima ora, solo per prendere tempo e per lo stesso motivo sospese i lavori della Camera appena vide la tempesta montare, Se ci sono incertezze sui fatti, tanto più sussistono in materia di valutazioni politiche: quella tempesta poteva portare al crollo del regime ancora in fasce? Probabilmente sì. Nel giugno 1924 la crisi di credibilità del fascismo fu enorme. Mussolini disse che la sua anticamera, già affollata di postulanti, si era desertificata. Le esercitazioni della Milizia registrarono tassi di assenze da brividi. Molti tesserati, soprattutto i numerosi “ultimi arrivati” restituirono la tessera.

Non significa che fosse pensabile un’insurrezione, che l’esercito avrebbe stroncato nel sangue. Ma il listone era pieno di eletti non particolarmente fedeli al fascismo. Una abile manovra parlamentare avrebbe potuto disgregare la maggioranza e mettere il re, esitante e titubante come sempre, in condizione di agire contro Mussolini senza forzare il mandato costituzionale, cosa che in assenza di un voto parlamentare contro il governo non era disposto a fare. La scelta dell’Aventino, la scelta da parte di 123 deputati di abbandonare i lavori parlamentari per protesta, fu a conti fatti suicida come capì subito un politico di estrema abilità come Giovanni Giolitti, che proprio per questo rifiutò di seguirli. L’ultima è più nascosta domanda riguarda la sfida su due fronti che Mussolini fu costretto ad affrontare e il cui esito fu incerto fino all’ultimo. Fino al 2 gennaio 1925, vigilia dello storico discorso alla Camera che segna per gli storici l’inizio reale della dittatura anche se questa non fu formalmente dichiarata fino alle leggi “fascistissime” varate tra il dicembre 1925 e il novembre 1926. I rapporti di forza che permisero quelle leggi, però, furono definiti il 3 gennaio 1925, nel discorso che mise fine alla crisi Matteotti.

Nel corso della crisi Mussolini aveva tenuto a bada a fatica gli squadristi che mordevano il freno, volevano rispondere con la violenza alla crisi e trovavano in Roberto Farinacci, a tutti gli effetti i numero due del partito. Mussolini voleva evitare di arrivare allo scontro con il re, e dunque con l’esercito, sottrarsi al condizionamento dell’ala più dura dello squadrismo e proseguire nella politica di “normalizzazione”, nonostante la tempesta in corso. Insistette anche quando, dopo il ritrovamento del cadavere del leader socialista il 12 agosto, gli aventiniani recuperarono forza e seguito nel Paese. Il 12 settembre, però, un deputato fascista, Armando Casalini, fu ucciso a Roma a rivoltellate e a quel punto gli squadristi si scatenarono senza più alcun controllo. Allo stesso tempo nella maggioranza i parlamentari moderati eletti col listone brigavano per provocare la crisi e abbattere il governo Mussolini mentre i comunisti avevano scelto di rientrare in aula abbandonando l’Aventino, il 26 novembre.

Il duce rispose alla doppia sfida, a metà dicembre, presentando una proposta di legge elettorale che tornava al metodo proporzionale, esiziale sia per i partiti di sinistra che per i parlamentari frondisti della maggioranza. Il 31 dicembre i consoli della Milizia si presentarono a palazzo Chigi e di fatto gli chiesero di dimettersi. Dunque a due giorni dal discorso che avrebbe costituito la base della dittatura Mussolini sembrava non avere più alcuna possibilità. Forte del progetto di ritorno al proporzionale, chiese al re una delega in bianco che gli permettesse di sciogliere le Camere quando avesse voluto ma Vittorio Emanuele rifiutò. Il decisivo colloquio della sera del 2 gennaio tra Mussolini e il re è rimasto segreto. Il duce non ottenne dal sovrano quello che chiedeva ma dovette comunque incassare un qualche sostegno, che gli permise di affrontare il giorno dopo il Parlamento con lo storico e molto aggressivo discorso nel quale rivendicò ogni responsabilità politica, storica e morale se non penale e inaugurò di fatto la dittatura.