Enrico Berlinguer sentiva che il mondo mutava, ma la morte lo strappò alla terza via

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Due settimane prima di recarsi a Padova dove morì tragicamente, Berlinguer era stato a Napoli a concludere la festa meridionale dell’Unità.

C’era una regola allora, il segretario del luogo in cui si svolgeva la manifestazione preparava un testo sulla realtà politica locale che Berlinguer, dopo averlo affidato a Tatò per eventuali revisioni, inseriva nel suo discorso.

Mi era già capitato in Basilicata. Berlinguer era venuto a Matera per le elezioni regionali del 1980. Prima della manifestazione visitammo i Sassi.

Ricordo un Berlinguer silenzioso ed emozionato dinanzi ad uno dei luoghi più suggestivi del mondo. Il comizio cominciò sul tardi. Una splendida luna, quella sera, sembrava adagiarsi sui Sassi e illuminava il tufo ingiallito del barocco materano.

Berlinguer stabilì un rapporto diretto con la folla enorme che era accorsa al suo comizio. Giunto alla parte dedicata alla Lucania, lasciò per qualche minuto il testo scritto, sembrò rivolgersi alla luna, gigantesca nel cielo in quella notte di maggio.

Ricordò che quella luna illuminava i Sassi dove per generazioni avevano sofferto i più poveri della città e i volti dei tanti convenuti ad ascoltarlo che avevano combattuto per mettere fine a quella che Togliatti aveva chiamato la vergogna d’Italia nel suo comizio a Matera nell’immediato dopoguerra.

La sera di fine maggio del 1984 a Napoli, sul palco da dove avrebbe parlato Berlinguer per concludere la festa meridionale c’erano i candidati al Parlamento europeo e i dirigenti della federazione.

In una foto che ho conservato di quella manifestazione ritrovo il volto, combattivo come sempre, di Maurizio Valenzi, riconosco il vecchio e insostituibile Antonio Cozzolino capo dei tramvieri di Napoli che chiamava Giorgio Napolitano, per segnalarne la delicatezza dei modi, in linguaggio marinaresco, “signorina di bordo” e a me aveva affibbiato il soprannome di “viso pallido”.

A colpirmi in quella foto è il volto minuto, spaurito e sorridente di Fabrizia Ramondino, alle spalle di Berlinguer, indimenticabile scrittrice napoletana che accettò la candidatura pur sapendo di non avere alcuna chance di essere eletta. Altri tempi.

Mi colpì del discorso di Berlinguer quella sera il riferimento ai minatori inglesi impegnati da mesi in una lotta senza quartiere per difendere le miniere dalla chiusura che la Thatcher minacciava.

Una lotta disperata che si sarebbe conclusa con la sconfitta loro e di Arthur Scargill, il mitico capo sindacale, e avrebbe segnato il trionfo della lady di ferro.

Ancora oggi mi chiedo come fosse possibile che, per sostenere la tesi che la classe operaia in Europa era in piedi e si batteva, si evocasse una lotta senza speranza come quella dei minatori del Regno Unito.

Erano i giorni in cui la battaglia parlamentare contro la eliminazione dei punti di contingenza decisa dal governo Craxi era giunta alla maggiore asprezza.

Nella atmosfera di scontro frontale, probabilmente anche il riferimento ai minatori inglesi per Berlinguer poteva funzionare. A poco era servito l’esito della lotta alla Fiat conclusasi pochi anni prima con la sconfitta dei sindacati e la marcia dei quarantamila.

Una vertenza che sembrava potesse finire in un vicolo cieco si svolgeva in quelle settimane a Napoli e riguardava l’avvenire dello stabilimento di Bagnoli dell’Italsider. Il cuore della classe operaia napoletana. Una roccaforte del Pci.

Erano mesi che il consiglio di fabbrica guidava imponenti manifestazioni contro un programma di ristrutturazione imposto da una concorrenza ormai agguerrita sui mercati internazionali dell’acciaio e da decisioni della Commissione europea relative alla distribuzione delle quote di produzione nei vari paesi produttori di acciaio della Comunità. Bagnoli non reggeva più.

Questa la amara verità. Avremmo dovuto capirlo da tempo. Forse sarebbe stato meglio se avessimo preso in considerazione le posizioni espresse anni prima da “Nord e Sud” e da Francesco Compagna circa la necessità di una delocalizzazione dello stabilimento più a nord, verso il Garigliano, per recuperare la meravigliosa baia di Bagnoli e lo straordinario complesso di beni storico culturali e paesaggistici dal degrado in cui erano precipitati e valorizzarli appieno.

Ma sarebbe stato tecnicamente ed economicamente possibile delocalizzare l’Italsider di Bagnoli? Certo è che prevalse troppo a lungo la convinzione che fosse necessario difendere la presenza della classe operaia in città.

Alla fine, malgrado lotte, discussioni interminabili, iniziative politiche, la siderurgia scomparve da Napoli mentre il progetto di riorganizzazione urbanistica e di risanamento ambientale dell’area ex Italsider si sarebbe trascinato, per non concludersi, per decenni. Se ne discute ancora oggi!

Concluso il comizio, del tutto insensibili alla sua stanchezza, portammo Berlinguer all’incontro con i compagni della sezione di fabbrica. Temevo che la linea che avevamo sostenuto di apertura al negoziato sulla ristrutturazione della fabbrica venisse nei fatti smentita da quell’incontro.

Sarebbe andato in fumo un faticoso lavoro di mesi, nottate di riunioni, sforzi tesi a persuadere i dirigenti della sezione della necessità di una condotta meno settaria.

Andò diversamente. Berlinguer ascoltò con attenzione le posizioni dei dirigenti della sezione ma sostenne il lavoro che era stato fatto e incoraggiò a procedere nel negoziato.

Mi salutò chiedendomi di informarlo sull’acciaieria! Acciaieria, quello che noi consideravamo lo stabilimento siderurgico più moderno d’Europa.

Appresi da una telefonata all’alba di Alfredo Reichlin che Berlinguer era in fin di vita a Padova. Provai un dolore autentico. Non ho mai voluto guardare il video che l’Unità avrebbe negli anni successivi diffuso, in cui Berlinguer, colpito dal malore sul palco nella piazza di Padova, continua il suo comizio.

Ritrovo nel mio diario del 9 giugno del 1984 queste parole: “Berlinguer colpito da emorragia cerebrale. In coma a Padova. Mi sconvolge e mi addolora. La sua tenacia…Vorrei ce la facesse per la sua vita più che per il partito”.

La mia generazione non può non serbare riconoscenza verso Enrico Berlinguer. In anni critici della storia dell’Italia repubblicana, quando erano in molti coloro che dichiaravano di non tenere né per lo Stato né per le Brigate rosse, montava la violenza e suggestioni estremiste si diffondevano tra i giovani, egli fece del Pci un argine a questa ondata distruttrice.

Né va smarrito, in un mondo politico che sembra usare la parola come elemento di manipolazione, la sua lezione di sobrietà, il rifiuto di ogni affabulazione, l’alto senso di responsabilità verso il Paese e la Costituzione antifascista.

Il metodo scelto per individuare chi avrebbe sostituito Berlinguer fu quello della consultazione. Lo stesso metodo adottato per eleggere Berlinguer vicesegretario di Luigi Longo al XII congresso del Pci nel 1969.

In quel caso la consultazione si limitò ai membri della Direzione del partito. Questa volta furono sentiti anche i segretari delle grandi organizzazioni e membri del comitato centrale.

La decisione avveniva sempre in una cerchia ristretta ma in quel tempo a nessuno sarebbe venuto in mente di mettere in discussione la legittimità di quel metodo, l’idea che il comitato centrale potesse essere chiamato a scegliere con un voto segreto tra diverse candidature era di là da venire. Figuriamoci le primarie.

Dalla consultazione emerse il nome di Alessandro Natta. Fu una scelta di continuità con la linea di Berlinguer. Ero convinto fosse invece necessaria una novità nella guida del partito.

Enrico Berlinguer aveva avvertito il drammatico dilemma che si stagliava dinanzi al Pci e che la crisi polacca e il decadimento dell’Urss avevano reso ancora più acuto.

Era convinto tuttavia di poterlo affrontare senza giungere ad una esplicita fuoriuscita dalla tradizione comunista. Riteneva vi fosse il tempo ed esistessero le basi concettuali per risolvere il dilemma battendo un’altra strada. La chiamò terza via. Una via che, scrisse Norberto Bobbio, nessuno sapeva dove fosse.

Quando toccò a me di essere consultato nella stanza al quarto piano di Botteghe Oscure da Ugo Pecchioli con un giovane Michele Ventura che verbalizzava, proposi che la scelta del successore di Enrico Berlinguer avvenisse tra due nomi: Giorgio Napolitano e Luciano Lama.

Sapevo che su quei nomi non sarebbe stato possibile raccogliere il consenso necessario ma avvertivo l’urgenza di una svolta e soprattutto che si tornasse a discutere della unità della sinistra italiana. Pecchioli sorrise, Ventura verbalizzò ed io uscii dalla stanza in pace con la coscienza ma preoccupato di essere apparso un po’ naif.