Giacomo Matteotti e la sua via al socialismo: diritti, libertà e democrazia

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Il 13 giugno 1924 il quotidiano del Psi Avanti! usciva con questo titolo: “Un fosco delitto antisocialista. L’angosciosa attesa sulla sorte dell’on. Matteotti rapito in pieno giorno a Roma. Assassinato?” Da tredici giorni nessuno era più riuscito a mettersi in contatto con il deputato del Partito socialista unitario che per l’ultima volta era comparso a Montecitorio dove il 30 maggio aveva pronunciato il suo ultimo discorso. In quel momento aveva firmato la sua condanna a morte, come lui stesso aveva commentato con i compagni, dai quali si era accomiatato con parole rimaste famose: “Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”. Matteotti era stato rapito il 10 giugno a Roma da un commando della Ceca – un gruppo di squadristi con incarichi “speciali”, omicidi compresi – mentre attraversava il ponte (che oggi porta il suo nome) per recarsi in Parlamento. Costretto a salire sull’automobile dei suoi assassini, pugnalato a morte, aveva resistito disperatamente: il suo corpo martoriato, seppellito tra le sterpaglie di un bosco a una ventina di chilometri dalla capitale, fu ritrovato solo il 12 agosto.

Mentre cercava di difendersi all’interno della vettura, Matteotti era riuscito a buttare dal finestrino il suo tesserino di deputato, raccolto dai passanti che avevano assistito al rapimento e annotato la targa di quella automobile sospetta. Troppi gli indizi e le testimonianze per riuscire a frenare le indagini, malgrado il potere di Mussolini, capo del governo e ministro dell’Interno, che ovviamente era stato messo al corrente dei fatti. Una volta individuato il proprietario dell’automobile in Filippo Filippelli, direttore di un giornale fascista, il “Corriere italiano”, individuati e arrestati gli esecutori materiali del delitto, si scatenava una valanga che sembrava per un momento travolgere il partito fascista: cadevano le teste degli uomini ai vertici del Pnf, dal segretario amministrativo, Giovanni Marinelli, a Cesare Rossi, vice segretario politico, al capo della polizia Emilio De Bono, tutti riabilitati dopo il 3 gennaio 1925 quando Mussolini nel discorso alla Camera, si sarebbe assunto di fatto tutta la responsabilità del crimine: “Io dichiaro qui, al cospetto di questa assemblea, e al cospetto di tutto il popolo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto. […] Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere (omissis), a me la responsabilità di questo”. Si chiudeva così il sipario su questa tragedia italiana.

Nei circa sette mesi intercorsi tra il rapimento e l’orazione “ciceroniana” di Mussolini in Parlamento, si consumavano gli ultimi sussulti di vita per lo Stato liberale, già colpito a morte dalla marcia su Roma e dalla farsa elettorale dell’aprile 1924. I partiti antifascisti che troppo tardi avevano capito le ragioni di unirsi contro il comune nemico, perdevano anche l’ultima battaglia contro il fascismo, combattuta con le armi della legalità sull’Aventino. Con le leggi speciali fasciste del 1926 sarebbero stati dichiarati fuori legge, costretti all’esilio, alla clandestinità oppure chiusi nelle carceri e al confino per tutti i lunghi anni del regime. Mussolini aveva raggiunto il suo obiettivo, anche se all’inizio della sua ascesa al potere in pochi avevano intuito quale fosse la vera natura e il vero scopo di tanta violenza contro i socialisti, ma anche contro i popolari, contro i democratici e contro chiunque cercasse di riportare la lotta politica entro i binari della legalità. Il duce puntava a distruggere lo Stato liberale, così da impedire che dopo la prima guerra mondiale l’Italia si potesse trasformare in una moderna democrazia attraverso un rinnovamento dell’intera classe dirigente conservatrice e reazionaria, ancora ferma agli ideali di un liberalismo in crisi in tutta Europa. Per arrivare alla meta Mussolini si serviva dei fasci di combattimento per eliminare gli ostacoli che aveva davanti, cioè quella minoranza di uomini liberaldemocratici, socialisti turatiani e cattolici sturziani, decisi a democratizzare il paese anche se incapaci fino all’ultimo di trovare un accordo politico per unire le loro forze nella resistenza agli assalti squadristi.

La scelta dei bersagli non lascia dubbi sulle intenzioni del capo fascista: il socialista riformista Giacomo Matteotti, aggredito già nel 1921 e negli anni successivi fino alla sua uccisione quattro anni dopo; lo stesso vale per Giovanni Amendola, ministro liberal democratico, preso di mira nel 1922 e morto nel 1926 per le troppe bastonate subite; don Minzoni, un sacerdote vicino al partito popolare di Sturzo, ucciso nel 1923, colpevole di essersi opposto dal pulpito alle violenze squadriste contro i suoi parrocchiani. In comune queste tre vittime della violenza fascista, avevano gli ideali di libertà e la profonda convinzione che attraverso le istituzioni democratiche fosse possibile cambiare l’Italia, assicurare maggiore giustizia e maggiori diritti, riscattare l’intera popolazione dalla miseria e dall’ignoranza, far crescere e far progredire il paese, per più di due terzi ancora fermo a una agricoltura povera, in alcune zone dominata dai grandi latifondi coltivati da una massa di contadini trattati come schiavi, in alcune regioni disoccupati cronici costretti da sempre all’emigrazione, afflitti dalle malattie non curate e da tutte le piaghe connesse alla loro condizione di emarginati.

L’unità politica nel regno sabaudo non era riuscita a creare una vera nazione, inclusiva di tutti gli italiani, operai e contadini visti come una minaccia di sovversione permanente dalla monarchia e dalle classi dirigenti. Solo all’inizio del secolo XX avevano iniziato a capire l’urgenza di imprimere una svolta al governo della nuova società di massa all’interno della quale da anni ormai socialisti e cattolici erano impegnati a costruire una rete di associazioni per proteggere, istruire e dare coscienza di sé al proletariato. Matteotti, nato in una ricca famiglia di possidenti, già nel primo decennio del Novecento aveva dedicato la sua vita all’opera di riscatto dei contadini in provincia di Rovigo, tra le zone più arretrate e povere d’Italia, pari a quelle del Mezzogiorno profondo. Seguiva l’insegnamento di Turati, il fondatore del partito socialista nel 1892, fin da allora impegnato nella battaglia per i diritti e le libertà di operai e contadini, nella convinzione che il socialismo si realizzava giorno per giorno, in un’attività instancabile sul territorio e in Parlamento. “Un socialismo che diviene” era la parola d’ordine del leader contro le impazienze dei massimalisti del “tutto e subito”, già diventati maggioranza nel Psi con le elezioni del 1904.

Eppure era grazie al gradualismo dei riformisti, alla loro fiducia nella lotta parlamentare e in tutti gli spazi istituzionali per realizzare le riforme necessarie al riscatto delle masse proletarie che il socialismo cresceva in Italia conquistando nuove libertà di associazione, di sciopero, di stampa; cresceva con la promulgazione di nuove leggi per la tutela del lavoro delle donne e dei bambini; cresceva con la conquista di nuovi diritti, tra i quali quello fondamentale del suffragio universale maschile (1913). Matteotti – soprannominato dai compagni “tempesta” – era un organizzatore instancabile in tutto il Polesine e nella finitima provincia di Ferrara dove non si moltiplicavano solo le sezioni del partito, le case del popolo, le leghe e le Camere del lavoro. Nascevano anche istituti di credito e cooperative e via via si facevano più numerosi i comuni nei quali i socialisti conquistavano il sindaco e la giunta alle elezioni amministrative.

Nel 1922 era socialista il primo cittadino eletto in tutti i 37 comuni della provincia. Ai sindaci e ai membri della sua giunta Matteotti, mandato in Parlamento alle elezioni del 1919 come deputato di Ferrara – il mandato parlamentare sarebbe stato rinnovato alle votazioni politiche del ’21 e poi del ’24 – insegnava a compilare, a correggere i bilanci, a imparare le regole di un buon amministratore, a formulare provvedimenti necessari a risollevare le condizioni di vita dei suoi concittadini. Si ispirava agli insegnamenti del socialista Badaloni, capostipite dei medici condotti che si era battuto tutta la vita per combattere la pellagra e la tubercolosi, malattie mortali per i bambini, le donne e gli uomini di quelle campagne dove la vita umana sembrava avesse così poco valore. Matteotti riversava la sua formazione scientifica e giuridica nei disegni di legge, preparati con cura nel suo studio e discussi con riconosciuta competenza nell’aula di Montecitorio. Alcune ricerche storiche sostengono che dietro il suo assassinio vi fosse anche l’analisi puntuale di una documentazione che avrebbe scoperchiato affari loschi dei gerarchi fascisti con compagnie petrolifere americane, quelle ruberie che Matteotti si preparava a svelare in Parlamento in quel giugno del 1924. Andava fermato definitivamente.

Non erano bastate le botte e le torture degli squadristi che i grandi proprietari terrieri avevano armato ovunque nelle campagne per combattere le leghe rosse (e le bianche dei popolari) che contestavano il dominio assoluto degli agrari sui contadini. Bisognava fermare l’avanzata delle masse ribelli che Matteotti, e con lui i massimi dirigenti della Federterra e del movimento cooperativo, educavano ai loro diritti e appoggiavano le loro rivendicazioni. Il deputato riformista aveva documentato aggressioni, umiliazioni e uccisioni che avevano insanguinato l’Italia nel 1921 in un opuscolo Inchiesta sulle gesta dei fascisti in Italia – poi pubblicato nell’aprile del 1924 a Londra col titolo The Fascists exposed, a Year of Fascist Domination. Non si era piegato, malgrado il senso di impotenza che mese dopo mese lo assaliva di fronte alla distruzione sistematica di tutto il tessuto organizzativo del Psi e dei sindacati. La paura della rivoluzione bolscevica era stato l’alibi della classe dirigente liberale complice di fatto degli squadristi, trasformati da Mussolini nel 1921 in un vero e proprio partito armato. Quei pochi liberali che erano stati in buona fede, troppo tardi avevano preso coscienza di quale fosse la vera natura del fascismo. Lo slogan mussoliniano della “controrivoluzione preventiva” in nome della patria in pericolo, non aveva alcun riscontro concreto nella realtà, anche se la maggioranza massimalista del Psi aveva continuato a illudere le masse proletarie e a spaventare i borghesi con lo slogan “Fare come in Russia”.

Non c’erano le condizioni per scatenare in Italia una rivoluzione e persino Gramsci nel 1920 ne era convinto, anche se l’ala di estrema sinistra del Psi non rinunciava ai dogmi del leninismo, arrivando persino alla scissione di Livorno nel ’21 quando veniva fondato il partito comunista. Eppure, incalzati dagli ex compagni comunisti, i massimalisti restavano ancorati al mito rivoluzionario, mentre solo il piccolo gruppo dei riformisti, guidati da Turati e da Matteotti, cercava una soluzione politica in un accordo di governo tra tutti gli oppositori e i perseguitati dal fascismo: popolari, democratici, liberali. La scissione del Psi era inevitabile, ma arrivava troppo tardi a pochi giorni dalla marcia su Roma quando Turati saliva le scale del Quirinale per offrire la sua disponibilità a un esecutivo di larghe intese per fermare i fascisti.

Nei mesi successivi la vita di Matteotti sarebbe stata sempre più difficile, come del resto per tutti gli oppositori socialisti e non: dai dirigenti comunisti, in tanti già chiusi nelle carceri tra il ’23 e il ‘25, ai popolari fedeli a Sturzo, obbligato all’esilio dal papa, ormai apertamente fiancheggiatore del fascismo, ai democratici e ai liberali che avevano trovato una guida in Giovanni Amendola. Matteotti era stato bandito da Fratta Polesine dove aveva casa e famiglia, diviso dalla moglie e dai figli; ma un analogo provvedimento di espulsione gravava sul capo dei dirigenti e dei quadri socialisti nelle province di tutta Italia dove braccianti e operai erano costretti a entrare nei sindacati fascisti per continuare a lavorare. Chi non si piegava ai nuovi padroni prendeva la via dell’esilio, una sorta di emigrazione politica per trovare un’occupazione negata loro in patria che anticipava la condanna all’esilio per i massimi dirigenti dei partiti, nel 1926 messi tutti fuori legge.

Dall’ottobre del ’22 alle elezioni del ’24 Mussolini, capo del governo, impegnato a “pacificare il paese e a ripristinare l’ordine pubblico”, come aveva dichiarato solennemente, scatenava la seconda ondata di terrore: lo squadrismo era ancora funzionale a stabilizzare il suo potere e a mettere a tacere per sempre gli oppositori. Il culmine veniva raggiunto al momento delle elezioni nel 1924, quando malgrado la certezza di una grande vittoria che la legge Acerbo assicurava al partito fascista, divampava la violenza squadrista contro gli elettori di qualunque partito non fascista, costretti a votare le schede preconfezionate con il simbolo del Pnf, bloccati all’ingresso dei seggi e bastonati a morte. Elezioni truffa macchiate di tanto sangue: era questa l’accusa lanciata dal deputato Matteotti che eletto nuovamente dai suoi pochi eroici concittadini, chiedeva l’invalidazione del voto.

Era stata la sua ultima battaglia: lasciava in eredità ai suoi compagni e a tutti gli italiani il suo “riformismo del fare”, un percorso verso il socialismo attraverso le libertà e i diritti assicurati solo da istituzioni democratiche. Il suo sacrificio avrebbe gettato anche il primo seme dell’unità di tutti i partiti antifascisti prima con la protesta corale sull’Aventino, poi per i successivi vent’anni di esilio con la Concentrazione antifascista e con i fronti popolari fino ad arrivare ai CLN. Non era stata una “traversata nel deserto”, ma un lungo doloroso percorso di resistenza al fascismo che avrebbe portato alla nuova Italia repubblicana, democratica e antifascista.