Guerra suicidio dell’Europa, l’Unione ha già perso: sinistra inutile se non cerca la pace

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Il dado è tratto? È certo paradossale che mentre incombe la guerra allargata, spacciata ormai apertamente dalle élite occidentali come un destino cui è vano opporsi, le elezioni europee si giochino solo sui volti dei leader e sugli effetti di polarizzazione del gergo colorito di un capo di governo.

Ancor più assurdo è che a spingere senza alcuna remora per imboccare la via del confronto armato generalizzato siano le famiglie verdi, liberaldemocratiche e socialiste.

Alle correnti progressiste, alle prese con la benedizione delle nuove armi e il dilemma dell’invio di truppe, serve una evidente carica etica per giustificare una escalation che dopo un biennio di sangue prenota altre distruzioni.

La genesi della lunga campagna d’Oriente, ai loro occhi, non può essere scrutata nelle tangibili pratiche di inimicizia connesse alla dissoluzione di un impero sconfitto. La reale scaturigine delle ostilità deve essere rimossa e affogata in una overdose di buoni sentimenti.

Senza una mistificante ubriacatura teologica, che evoca continuamente i valori dell’occidente messi a repentaglio o la sorte dell’intera Europa appesa a un filo, la guerra di lunga durata chiamerebbe in causa anche i rischi incautamente prodotti da una illimitata volontà di potenza della Nato.

Comprendere la complessità, oltre la divaricazione manichea tra Bene e Male, non è compatibile con il tempo delle bombe salutato come la prova più affidabile per l’apprensione della Verità.

Eppure nessuna retorica sulla steppa ucraina quale ultimo terreno metafisico per la custodia degli stili di vita nostrani potrà cancellare l’impatto sprigionato dal calcolo smisurato degli americani.

Trent’anni fa intendevano non solo brindare ai rapporti di forza sorti dopo l’implosione del nemico, ma stravincere oltre le stesse necessità di una governance mondiale.

Portando ovunque le insegne dell’alleanza atlantica, hanno dilatato la funzione del patto spingendolo ben al di là dell’originaria missione difensiva.

Tra le matrici effettive della contesa esplosa con l’“operazione speciale” russa dominano anche il mancato rispetto della parola data alla leadership sovietica, la esibizione muscolare di fronte al fatto compiuto del crollo dell’Urss, l’azzardo di una estensione inaudita dell’influenza su aree che sarebbe stato prudente mantenere in condizione di neutralità.

Di ciò si deve tacere, e per ottenere la rimozione delle cause dell’urto bellico viene gettata l’esca della morale, perché altrimenti la richiesta di una mobilitazione militare ad oltranza cadrebbe nel vuoto.

Non è però agevole spegnere d’incanto le ragioni corpose dei contrasti geopolitici e inoltrarsi nel regno delle favole edificanti. L’opinione pubblica stenta a credere che l’esercito russo nel 2022 abbia inaugurato le prove generali per la conquista dell’Europa.

Pochi bevono la narrazione secondo cui Kiev rappresenta solo la prima tappa di una lunga marcia che porterà presto l’armata di Putin sino a Lisbona.

Senza questa gracile copertura ideologica, che predica un crescendo guerresco come risposta inevitabile dinanzi alla libertà di tutti altrimenti minacciata, le forze progressiste non disporrebbero di argomenti utili per coprire i fallimenti della loro subalternità strategica alle direttive del comparto politico-militare d’oltreoceano.

Comunque evolva lo scontro nelle trincee, l’Europa è il sicuro perdente della battaglia ibrida finita fuori controllo. Non ha inciso nel governo razionale degli equilibri geopolitici del dopo Guerra fredda e ha rinunciato in maniera preventiva a qualsiasi iniziativa politica destandosi a duello ormai scoppiato.

La scelta di accelerare i tempi, per tramutare senza più infingimenti un conflitto per procura in un coinvolgimento ancora più diretto nel fuoco, è nient’altro che il certificato di un suicidio storico dell’Europa.

La sterilità delle sue antiche culture politiche affiora nitidamente sugli elmetti allacciati con largo anticipo dai leader della sinistra, che aspirano ad essere le prime linee nella difesa della democrazia sotto tiro.

I costi sociali ed umani dell’economia di guerra potrebbero però consegnare il potere proprio alle formazioni illiberali attratte per loro intima convinzione dal verbo putiniano di tradizione, sacro e “democrazia sovrana”.

Che dopo Colle Oppio anche in Francia la destra radicale abbia per motivi di pura opportunità afferrato il vangelo atlantico, non cambia i timori di una Europa imbrunita.

In un Vecchio continente sempre più tinto di nero, da Roma a Stoccolma, da Budapest a Parigi, il chiacchiericcio sulla libertà in pericolo per l’assedio di Kiev si dileguerà.

Con il trionfo dei partiti che guardano alle democrature, i quali troveranno altro alimento dalle possibili brutte notizie provenienti dalle presidenziali di novembre, lo scacco sarà definitivo.

Invece di perdersi dietro il “chissene-frega” di una statista per caso, la sinistra dovrebbe dichiarare che il problema principale, quello che fa la differenza nell’agenda elettorale, è ricercare una soluzione negoziale alla crisi in atto.

Una sinistra che non sa recuperare il mito dell’Europa nata per l’appunto come un grande progetto di pace si barcamena tra frasi insensate che la conducono vicino all’oblio.