Il sangue degli indiani sull’America, Kevin Costner è tornato a ballare coi Lupi

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“Una storia d’America troppo grande da raccontare in un solo film”, così viene definito Horizon: An American Saga, il nuovo lavoro dell’attore e regista Kevin Costner che, il 4 luglio e il 15 agosto, porterà al cinema i primi due capitoli di una quadrilogia work in progress ambientata nel corso dei quattro anni di Guerra Civile Americana, dal 1861 al 1865. Un sogno, un progetto, un’idea che Costner aveva immaginato agli inizi degli anni 90 e che, come Francis Ford Coppola per Megalopolis, ha dovuto autofinanziare per dargli la luce. Distribuito da Warner Bros Italia dopo la calorosissima e commossa accoglienza all’ultimo Festival di Cannes, Horizon, come suggerisce il titolo, racconta di come, vista come “orizzonte” inesplorato, una terra promessa, desolata, pronta ad essere la base per la costruzione di città ideali, l’America sia stata colonizzata e brutalmente assoggettata.

Già al lavoro per realizzare il terzo film della saga, Kevin Costner insieme al folto cast corale che comprende, tra gli altri, Sienna Miller, Sam Worthington, Luke Wilson e Jena Malone, è tornato a raccontare, in una conferenza stampa virtuale con la stampa di tutto il mondo, la genesi del film, dopo l’apparizione a Cannes. Una storia americana quella di Horizon ma una storia universale con la quale ci si può relazionare: “Credo che i film ci diano sempre la possibilità di immedesimarci” conferma Costner e prosegue: “Forse non siamo poi così diversi. Forse non condividiamo la stessa lingua o le stesse abitudini, ma se pensiamo all’America, in un certo senso non è poi così vecchia se paragonata al resto del mondo. Intendo dire che le prime notizie dell’America le abbiamo avute 400 anni fa ma se la passava bene anche senza di noi. Sono stati gli europei e le persone del resto del mondo poi a colonizzarla. Una volta riusciti ad attraversare l’Atlantico, queste persone hanno capito che quella terra era promettente e così estesa e florida che avrebbero potuto realizzare quello che in Europa era impossibile fare. A quel tempo si parlava dell’America come il Giardino dell’Eden. Quello che non avevano capito era che lì c’erano già delle persone e una cultura fiorente, con 15.000 anni di Storia. Queste due idee entrarono in conflitto ed è qui che comincia la storia di Horizon”.

Aveva meno di 10 anni Kevin Costner quando al cinema uscirono i due film che dichiara essergli stati di ispirazione, non solo per la tetralogia ma anche per i western precedenti da lui realizzati: L’uomo che uccise Liberty Valance e La conquista del West, entrambi del 1962 ed entrambi diretti da John Ford, dei classici a rimanere impressi nella memoria di un ragazzino di 7 anni.
Al Costner attore e poi regista dobbiamo una vasta cinematografia western a cominciare dai due film diretti da Lawrence Kasdan: Silverado del 1985 e Wyatt Earp (1994) per poi passare a quelli per cui ha curato la regia: il capolavoro dai 7 Oscar Balla coi lupi (1990) e il meno riuscito Terra di Confin (2003). Questa volta Horizon: An American Saga promette tre ore per film per un totale di 12, un progetto non solo ambizioso ma anche innovativo per la sua destinazione nelle sale cinematografiche. Costner descrive il suo approccio a questo particolarissimo progetto: “Quando sto girando una storia, non intendo fermarmi finché non è finita. Quando la guardo, cerco di capire di cosa si tratta. E in questo caso si trattava davvero di un viaggio, c’era abbastanza da raccontare per quattro film, non solo uno. La mia idea è non aspettare di vedere se il primo film abbia successo. Credo nella storia. Nella mia mente l’unico modo perché abbia successo è che sia completa”. In Horizon, Kevin Costner affida a se stesso una piccola parte, quella di Hayes Ellison che nelle note di regia descrive come “il classico personaggio che nei Western vedresti spuntare all’orizzonte e di cui non sai nulla ma che ha probabilmente un passato e una serie di esperienze vissute che vorrebbe volentieri lasciarsi alle spalle”.

Il nome del suo personaggio non è un caso così come non lo è il fatto che il figlio di Costner, Hayes, per l’appunto, reciti nel film. Il regista ha spiegato il nesso durante il Festival di Cannes: “Questa storia è iniziata nel 1988 con il personaggio di Hayes. Io ho problemi con i miei figli, ho avuto problemi a fare questo film, e non so per quale ragione ho tenuto il nome Hayes: era parte del viaggio e non volevo abbandonare questo personaggio. Non riuscivo a realizzare questo film, ma non smettevo di innamorarmene. Per questo 15 anni fa ho chiamato mio figlio Hayes ed è anche il motivo per cui l’ho fatto recitare nel film. Interpreta il ragazzino che non vuole lasciare andare via il padre. È stata la prima volta che ha recitato. Ero lontano da casa e volevo la mia famiglia vicina: è stato un modo per tenerlo con me”. A Cannes, dove Costner ha presenziato insieme al cast ed il figlio Hayes, il film ha fatto commuovere la platea della manifestazione e lo stesso Costner. A distanza di quasi due mesi, il regista ricorda i momenti condivisi con il suo team: “A Cannes sono andato sotto braccio alle mie 7 ragazze, le mie colleghe e le mie figlie, prima di tutto per l’altissimo livello di contributo che le donne hanno dato al Western americano. Normalmente non le identifichiamo con questo genere. Nel nostro caso specifico, non solo le varie trame passano attraverso queste donne, ma il film stesso non sarebbe possibile senza di loro. E le storie che raccontiamo sono migliori e più interessanti perché mostrano cosa hanno vissuto”.

E proprio delle donne finalmente protagoniste in un western, genere a dominazione maschile, parla Abby Lee, il cui personaggio interagisce di più con l’Hayes di Costner: “La donna che interpreto è stata praticamente costretta a diventare una prostituta perché se non eri sposata con un uomo, in altre parole se non eri proprietà di un uomo, non avevi diritti. Non avevi libertà né l’opportunità di essere indipendente, avere dei sogni, ma nonostante questo il mio personaggio brucia di desiderio, vigore e passione, in un periodo storico dove tutto questo non era consentito”. Tra i punti di forza di Horizon: An American Saga non c’è solo il restituire alle donne ed ai personaggi femminili il loro ruolo fondamentale nella Storia e in queste storie ma anche l’inclusione di attori nativi americani, della loro lingua e della loro versione delle vicende, a giusta rappresentanza.

Nel cast, a interpretare due personaggi di origine Apache, Owen Crowshoe e Tatanka Means che dichiarano: “Quando vediamo la nostra gente rappresentata sul grande schermo vogliamo questo genere di autenticità. Vogliamo sentire la nostra lingua parlata correttamente e non massacrata. Questo per noi è ragione di orgoglio. E non parlo solo degli Apache ma di tutti gli Indigeni Nativi Americani”. Interpellato su questa scelta, Costner rimarca: “Non credo che questa da parte mia si possa considerare come una mossa intelligente o super, l’autenticità per me era l’unica strada percorribile per avere un buon film. Dunque non credo di avere nessun merito. Non puoi fare un Western senza raccontare anche la storia dei Nativi Americani, mi sembra ovvio. Abbiamo portato il caos nel loro modo di vivere e non si sono mai ripresi. Sono consapevole di questo, come delle incredibili risorse delle persone che hanno attraversato il paese per costruirsi una nuova vita. È stata però una lotta impari e questo non è giusto. Non intendo certo riscrivere la Storia, ma, ripeto, non si può raccontare il West senza coinvolgere i Nativi”.