“In Francia vogliono far fuori la sinistra per non turbare gli speculatori”, intervista a Emiliano Brancaccio

RMAG news

C’è un elemento che accomuna le recenti partite elettorali in Europa, Regno Unito, Francia e quelle prossime negli Stati Uniti sconvolti dall’attentato a Trump: è la polarizzazione dell’elettorato verso gli “estremi”, una tendenza che molti considerano causa di disordini e terrore ma che in realtà è l’effetto inevitabile dell’epoca violenta in cui viviamo. È questa la tesi dell’economista Emiliano Brancaccio, tra gli intellettuali di riferimento del pensiero progressista e autore di vari saggi sulla crisi della democrazia contemporanea.

Professor Brancaccio, in un’intervista a Sky TG24 lei ha sostenuto che ci sono tendenze che accomunano le competizioni elettorali in Europa, Regno Unito, Francia e anche la campagna presidenziale americana stravolta dall’attentato a Trump. Quali sono?
Il fattore comune di questa fase storica è che un po’ tutte le elezioni smentiscono il vecchio teorema dell’elettore mediano.

Cosa dice quel teorema?
Nasce dall’idea che gli elettori tendano ad addensarsi soprattutto verso il “centro” dello schieramento politico. E quindi prevede che la competizione tra partiti consista soprattutto nel catturare il consenso degli elettori di “centro”, ossia coloro che riflettono le istanze della cosiddetta borghesia liberale “moderata”. Per lungo tempo questa idea è stata prevalente tra gli analisti politici. Oggi non più. Soprattutto dopo la grande recessione del 2008, il teorema dell’elettore mediano è stato smentito dai fatti.

In che senso smentito?
Nel mondo occidentale ci sono state due tendenze elettorali, verso l’astensionismo ma anche verso picchi di consenso a favore delle ali “estreme” degli archi parlamentari: il più delle volte verso le frange della destra reazionaria ma talvolta anche verso sinistra. Lo spazio del vecchio elettore mediano, liberale e moderato, si è assottigliato.

Come si spiega questo spostamento di voti?
Con il fatto che le società occidentali si stanno polarizzando. Il capitale si centralizza nelle mani di un nucleo sempre più ristretto di grandi oligarchi, i salari ricevono una quota del Pil minore, lo stato sociale si assottiglia, la privatizzazione si espande anche nei servizi di base. Il mutamento materiale è di tale portata da ricadere anche sulle elezioni e sul poco altro che oggi resta dei processi democratici. Gli elettori che non abbandonano del tutto la politica vanno più spesso verso gli “estremi”, a sinistra e soprattutto a destra, almeno per il momento. In ogni caso tramonta l’idea che le elezioni si vincano al “centro”.

Questa tendenza sembra evidente in Germania, in Francia, negli Stati Uniti, e anche in Italia. C’è chi dice però che il Regno Unito sia un’eccezione, vista la vittoria di un labour moderato come Starmer.
Se osserviamo i dati, la polarizzazione si verifica anche in paesi come il Regno Unito, dove il sistema elettorale iper-maggioritario offusca le tendenze politiche di fondo. Il Labour del “moderato” Starmer ha perso mezzo milione di voti rispetto al vecchio Labour un po’ più radicale di Corbyn. E i conservatori tradizionali hanno perso ancor più pesantemente, soprattutto contro la destra piccolo-borghese di Farage.

Dopo l’attentato a Trump abbiamo assistito ad accorate condanne della violenza e appelli alla moderazione. Molti sostengono che la polarizzazione verso gli “estremi” sia proprio la causa dei crescenti episodi di violenza verbale e fisica nelle competizioni politiche. Lei che ne pensa?
Più che una causa della violenza, la polarizzazione politica è un suo effetto. Viviamo un’epoca dominata da quella che io chiamo una “logica violenza del capitale”: crescente sfruttamento del lavoro, diffusione della povertà, stravolgimento degli equilibri della natura e del clima, rilancio delle guerre imperialiste. Trovo ingenuo pensare che la politica possa restare “moderata” mentre tutte le altre cose del mondo si fanno “estreme”.

Si pone allora un problema per i vecchi sostenitori del “centro”. Se le tendenze politiche premiano gli “estremi”, i moderati saranno costretti a scegliere tra sinistra e destra. Dove andranno?
La storia ci dice che una parte rilevante di “moderati” ha spesso preferito orientarsi verso destra per proteggere il diritto di proprietà privata, piuttosto che sostenere i diritti civili e sociali promossi dalle sinistre. È una contraddizione tipica del liberalismo borghese, che noi italiani dovremmo ben conoscere. Prima di diventare un’icona dell’antifascismo liberale, lo stesso Benedetto Croce fece concessioni al fascismo in nome dell’obiettivo prioritario di salvaguardare i rapporti proprietari borghesi.
Tuttavia, è anche capitato che pezzi di borghesia progressista abbiano aderito a programmi apertamente di sinistra.
È accaduto quando la sinistra ha saputo egemonizzare ampi settori della società puntando su ambiziosi progetti di modernizzazione. Il più delle volte l’egemonia si è costruita intorno alla capacità di affrontare uno dei fenomeni più potenti della contemporaneità: la tendenza verso la centralizzazione dei capitali in sempre meno mani. Il populismo tenta erroneamente di ostacolarla, con mezzi più o meno improbabili. Una sinistra “rivoluzionaria” moderna dovrebbe invece organizzare un piano per governare quella tendenza, per sovvertirla e indirizzarla verso fini di interesse collettivo. È su questo terreno che bisognerebbe sfidare i cosiddetti borghesi “progressisti”, ammesso che ancora esistano.

In questa crisi del “centro” moderato, resta aperto il problema della reazione dei mercati. Se gli elettori vanno verso gli “estremi”, i capitali fuggono via.
Anche questa, dopotutto, è una “logica violenza del capitale”: far svolgere le elezioni ma poi legare le mani ai vincitori che esprimono il cambiamento politico. In fondo, il grande paradosso della “moderata” democrazia liberale è che la sua sopravvivenza dipende dalla spietata “dittatura dei mercati finanziari”, ossia degli interessi capitalistici prevalenti che impediscono la realizzazione di programmi politici alternativi. A ben vedere, però, questa “dittatura finanziaria” colpisce la sinistra, non la destra.

Per quale ragione?
Le forze della destra reazionaria danno un po’ fastidio ai cosiddetti mercati solo nelle fasi di deflazione, quando cercano di difendere i piccoli proprietari indebitati dal rischio di insolvenza. In tutti gli altri casi la destra si rivela nemica ideale del lavoro e fedele ancella dei grandi interessi capitalistici.

In effetti, in questi giorni in Francia si dice che la sinistra non può governare perché agiterebbe i mercati…
Il fronte unito della sinistra francese ha ottenuto la maggioranza relativa dell’Assemblea nazionale, eppure vogliono tagliarlo fuori dalle ipotesi di governo per evitare che gli speculatori si rivoltino. Questo la dice lunga sullo stato comatoso in cui versa la democrazia liberale in Europa.

In un dibattito a Parigi proprio con Mélenchon e in un intervento al Parlamento europeo, lei ha sostenuto che è possibile difendere un programma politico di sinistra dalla reazione avversa dei mercati. In che modo?
Io lo chiamo “social standard sui movimenti di capitale”. In pratica, è uno sviluppo dell’articolo 65 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea e di altre norme del FMI, che in alcuni casi ammettono restrizioni sui movimenti internazionali di capitali. La mia tesi è che tali movimenti debbano essere ammessi solo tra paesi che si coordinano per convergere verso più elevati standard di salvaguardia sociale e del lavoro, e debbano invece esser vietati da e verso paesi che competono al ribasso su quegli stessi standard.

Il suo “social standard” sembra anche un’alternativa alla politica del “friend shoring” con cui gli Stati Uniti stanno dividendo l’economia mondiale in due blocchi contrapposti, degli “amici” e dei “nemici” di Washington. È così?
Sono entrambi modelli di governo politico delle relazioni economiche internazionali, ma le premesse e le implicazioni sono opposte. Il “friend shoring” è una forma di protezionismo aggressivo che stravolge i rapporti globali interni alla classe capitalista, soprattutto tra il grande debitore americano e il grande creditore cinese. È un tipico strumento del moderno imperialismo, che non a caso alimenta gli attuali venti di guerra.
Il “social standard”, al contrario, punta a modificare i rapporti internazionali di sfruttamento tra capitale e lavoro. Può esser considerato il tassello di un piano più generale, finalizzato a ricollocare la lotta politica: non più come regressivo conflitto capitalistico tra le nazioni ma come moderno conflitto tra le classi, propulsore di progresso sociale e civile.

Lei insiste molto sui disastri della libera circolazione dei capitali e sull’esigenza di un piano di governo politico e non di mercato delle relazioni economiche internazionali. Eppure, il controllo dei movimenti di capitali resta una politica tabù…
Non direi. Per scopi di guerra i capitali esteri vengono ormai bloccati senza mezzi termini. E se pensiamo al modo in cui le banche centrali hanno contribuito a farci uscire dalle crisi finanziarie e pandemiche di questi anni, ci rendiamo conto che hanno messo le briglie ai mercati, hanno bloccato le speculazioni, e così via. Ovvero, sia pure in una logica di protezione degli interessi capitalistici, sono state costrette a cimentarsi in prodromi di pianificazione pubblica. Tutto questo indica che, pur tra mille contraddizioni, siamo giunti a un bivio di portata storica. Dobbiamo decidere se restare nel caos distruttivo di un sistema che lascia liberi gli agenti del capitale e lega le mani al cambiamento politico, o se al contrario siamo pronti a imbrigliare gli agenti del capitale per inaugurare una nuova epoca, di coordinamento politico dei rapporti internazionali e di rinnovate lotte per l’avanzamento sociale. Sarà un crocevia decisivo: tra guerra e pace, tra barbarie e civiltà.

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