Intervista a Christian Ferrari: “Più welfare e diritti: contro l’autonomia differenziata e per il salario minimo le battaglie per la democrazia”

RMAG news

Christian Ferrari, membro della Segreteria nazionale della Cgil. In pochi giorni il quesito referendario per abrogare l’Autonomia differenziata ha superato, tra cartacee e digitali, le 500mila firme richieste dalla legge. Che segnale è?
Intanto una precisazione: non abbiamo alcuna intenzione di fermarci. Continueremo a raccogliere le sottoscrizioni fino all’ultimo giorno utile di settembre, perché più persone riusciremo a coinvolgere, più forte sarà la nostra battaglia referendaria e, soprattutto, più probabilità avremo di raggiungere il quorum, portando a votare, nella prossima primavera, oltre 25 milioni di persone. Noi siamo convinti di potercela fare. Come dimostra il numero di firme raggiunto in un tempo così ristretto, la nostra mobilitazione intercetta un sentimento diffuso nel paese, trasversale sia geograficamente (a firmare non sono solo i cittadini del sud, ma anche tanti del centro-nord), sia politicamente (la legge Calderoli preoccupa anche molti elettori della destra, compresi diversi amministratori locali).

Per quale ragione la Cgil ha deciso di intraprendere la via referendaria anche per abrogare la legge Calderoli? Avete considerato i rischi che questa scelta comporta, con un tasso di astensionismo che cresce puntualmente a ogni tornata elettorale?
Io credo che la domanda vada ribaltata, ossia: potevamo fare diversamente? Penso proprio di no, perché il progetto del governo non ha solo implicazioni istituzionali, peraltro rilevantissime, visto che intende dividere l’Italia in tante piccole patrie, tenute insieme dall’uomo o dalla donna soli al comando; ma incide pesantemente sui diritti delle persone che rappresentiamo: lavoratori e pensionati. Il provvedimento in questione, infatti, colpisce il contratto nazionale di lavoro; destruttura l’istruzione pubblica; accelera il processo di privatizzazione del servizio sanitario nazionale; priva il welfare di risorse fondamentali; regionalizza e frantuma la normativa su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; rende di fatto impossibili politiche industriali e di sviluppo, frammentandole regione per regione. In questo scenario, non sarà solo il Mezzogiorno a pagare un prezzo salatissimo, ma l’intero paese, che perderebbe influenza anche a livello europeo.
Non è un problema che riguarda esclusivamente il mondo del lavoro, anche il sistema delle imprese verrebbe danneggiato: con le crisi geopolitiche in corso e la recessione tedesca, solo rilanciando la domanda interna e puntando sull’interdipendenza tra l’economia settentrionale e quella meridionale possiamo agganciare una crescita solida e duratura. Perciò sono fiducioso: ritengo ci sia una larga convergenza di interessi che può metterci nelle condizioni di raggiungere e superare il quorum. L’importante è riuscire a parlare al cuore e alla testa delle persone in carne e ossa, e far diventare questa una mobilitazione collettiva, di popolo.

Ci avete preso gusto: con i referendum per i diritti sociali e l’abolizione del “Jobs act” siamo a cinque quesiti.
E infatti noi chiederemo di votare “cinque sì”, per cambiare per davvero, e finalmente, il modello sociale e di sviluppo. Per le ragioni che ho elencato prima, difendere l’unità dell’Italia e cambiare la legislazione sul lavoro fanno parte di un’unica battaglia. Abbiamo un’occasione storica: invertire, per la prima volta dopo trent’anni, il processo di svalorizzazione del lavoro, che ha alimentato una precarietà occupazionale che sempre più spesso si trasforma in precarietà esistenziale, in particolare per giovani e donne; salvaguardare il welfare pubblico e universalistico; restituire nuova centralità all’intervento pubblico in economia, attraverso le politiche industriali e gli investimenti che non possono che avere una regia nazionale. Con meno di questo, sarà molto complicato, per non dire impossibile, anche fermare il processo strutturale di de-industrializzazione che stiamo attraversando da tempo.

Venite accusati di conservatorismo di fronte alle novità che vuole introdurre la destra.
Attraverso l’Autonomia differenziata e il Premierato, il governo e la maggioranza vogliono sovvertire la Costituzione antifascista nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro. E noi non possiamo restare a guardare. Il nostro impegno non è rivolto a difendere uno status quo che non ci va affatto bene, ma a cambiare le cose in profondità, per colmare finalmente la distanza che separa il progetto di società previsto nella Carta del ’48 dalle condizioni materiali di vita e di lavoro delle fasce popolari. Noi, in definitiva, riteniamo che la questione democratica e la questione sociale siano inestricabilmente intrecciate. Gli elettori disertano le urne non perché non possono eleggere un capo, ma perché non si sentono più rappresentati. Si è addirittura persa la speranza di poter incidere sulle scelte politiche ed economiche partecipando collettivamente alla vita democratica. Noi, con i cinque referendum, gli offriamo uno strumento concreto per decidere direttamente del loro futuro e di quello del Paese.

“La scelta è semplice: salario minimo o schiavismo legale”. Così l’Unità titolava nei giorni scorsi in prima pagina, a proposito di questione sociale. È una forzatura giornalistica?
No: sotto una certa soglia, non è lavoro, è sfruttamento. E sono milioni le lavoratrici e i lavoratori che sono poveri pur lavorando. Su questo registriamo un’interessante evoluzione del quadro politico. Dopo anni in cui il termine “salario” era scomparso dal dibattito pubblico, in cui imperversava la mitologia del “tutti imprenditori di sé stessi”, ci si sta rendendo sempre più conto dell’esistenza di una questione salariale ormai grande come una casa. Per risolverla vanno azionate tutte le leve di cui disponiamo: innanzitutto il rinnovo di tutti i contratti nazionali, pubblici e privati, soprattutto a fronte di un’inflazione da profitti totalmente scaricata su lavoratrici e lavoratori; il contrasto alla precarietà e alla logica di competizione di costo; e anche l’introduzione di un salario minimo legale non alternativo, ma a sostegno della contrattazione collettiva, come delineato nella proposta di legge delle opposizioni. Adesso occorre chiudere il cerchio e affiancare alla battaglia per il salario minimo anche quella per una legge sulla rappresentanza, per dare efficacia generale ai contratti e per riconoscere a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori il diritto di eleggere i propri rappresentanti e di votare su piattaforme e contratti che li riguardano. Anche questo è un modo per rivitalizzare una democrazia – la nostra – sempre più asfittica e vuota di partecipazione popolare.

Una sinistra che non pone al centro del suo agire temi cruciali come la difesa della dignità del lavoro e la pace senza se e senza ma, ha ancora legittimità a definirsi tale?
Del lavoro abbiamo detto, e anche delle novità positive nell’approccio delle forze progressiste, i cui leader – tra l’altro – hanno sottoscritto i nostri referendum popolari, sui quali – è il caso di ricordarlo – abbiamo raccolto quattro milioni di firme, già depositate in Corte di cassazione. L’altra questione che citi, quella della pace, è per la Cgil il tema dei temi, la precondizione di tutto il resto. Ce lo ha insegnato la storia: le conseguenze della guerra non le paga mai chi la decide, ma i lavoratori che vengono mandati a morire nei campi di battaglia, insieme alla popolazione civile che sta vivendo sofferenze indicibili in Ucraina, a Gaza e in tutti gli altri teatri di conflitto. Non va poi dimenticato che gli effetti delle crisi geopolitiche si sentono eccome anche alle nostre latitudini, acuendo una crisi economica e sociale che sta impoverendo brutalmente chi vive di salario o di pensione. Per queste ragioni, ma soprattutto per scongiurare un’escalation perfino nucleare sempre più incombente, chiediamo che la parola venga tolta alle armi e restituita alla politica e alla diplomazia. Purtroppo, non è solo il Governo italiano a ignorare i rischi che corre l’umanità intera, ma anche l’Unione europea, in cui si è arrivati a sostenere la necessità di riconvertire l’economia continentale in un’economia di guerra, attivando una corsa dissennata al riarmo che non porterà nulla di buono. Noi pensiamo, al contrario, che l’Europa debba riscoprire la sua vocazione di forza pacificatrice, di ponte tra est e ovest, tra nord e sud del mondo, e che tutte le risorse disponibili vadano concentrate sulle politiche sociali e sugli investimenti pubblici comuni, sul modello del Next generation Eu. Altro che il ritorno all’austerità sancito dal nuovo patto di stabilità avallato anche dai sovranisti nostrani.

A settembre saranno due anni del governo Meloni. Vista dalla Cgil, che destra è quella che governa oggi l’Italia?
Una destra che ha assistito praticamente inerte alla drammatica riduzione del potere d’acquisto di milioni di lavoratori e pensionati; che con una inaccettabile logica di scambio tra i diversi partiti che compongono la maggioranza sta tentando di rompere il delicatissimo equilibrio tra i poteri dello Stato disegnato dai padri costituenti, trasformando la nostra democrazia in una democratura; che porta avanti una politica fiscale che corporativizza il nostro sistema tributario – con lavoratori e pensionati che pagano di più di professionisti benestanti – e incentiva un’evasione fiscale di massa; che non sta mettendo in campo alcuna politica industriale per contrastare il declino produttivo del Paese; che sta perdendo anche l’irripetibile opportunità rappresentata dal Pnrr, e potrei proseguire oltre. Gli effetti di questa impostazione sono sotto gli occhi di tutti: crescita asfittica del Pil; due anni consecutivi di calo della produzione industriale; aumento della povertà e delle diseguaglianze sociali; sanità sull’orlo del collasso; scuola pesantemente definanziata, eccetera. Siamo di fronte a un bivio: o si vanno a prendere i soldi dove sono (extra-profitti, rendite finanziarie e immobiliari, grandi patrimoni, evasione fiscale), oppure non ci saranno alternative all’aumento dei tagli alla spesa sociale e a un’ulteriore riduzione degli investimenti pubblici, indispensabili per affrontare le sfide cruciali della transizione digitale e della conversione ecologica del nostro sistema produttivo. La Cgil ha tutta l’intenzione, in vista della prossima manovra di bilancio, di promuovere tutte le iniziative di mobilitazione e di lotta necessarie a ottenere un cambiamento, senza il quale sarà colpito non solo il mondo del lavoro ma l’intero sistema economico nazionale.

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