Intervista a Stefano Silvestri: “7 ottobre? Iran fu spiazzato dal progrom di Hamas in Israele”

RMAG news

Il Medio Oriente in fiamme. Da Gaza al Libano. In attesa della rappresaglia israeliana in Iran. Teheran. L’Unità ne discute con uno dei più autorevoli analisti italiani di politica estera e geopolitica: Stefano Silvestri, già presidente dello IAI (Istituto Affari Internazionali) e oggi consigliere scientifico. Il professor Silvestri è stato anche docente sui problemi di sicurezza dell’area mediterranea presso il Bologna Center della Johns Hopkins University e ha lavorato presso l’International Institute for Strategic Studies di Londra. Nel campo, un’autorità assoluta.

Gaza, Libano, Yemen, Siria, in attesa della rappresaglia israeliana in Iran. Professor Silvestri, in Medio Oriente è in atto una guerra regionale?
Gli elementi di un confronto regionale ci sono sempre stati. La contrapposizione tra Iran e Israele, come quella tra sciiti e sunniti già c’erano, oltre naturalmente quella storica tra Israele e i Palestinesi. Il problema è se questi elementi s’intrecciano tra loro e diventano una guerra regionale che coinvolge contemporaneamente tutti i vari paesi.
Finora lo scontro è stato più indiretto che diretto.

Nel senso?
Nel senso che da parte israeliana sono state fatte azioni contro l’Iran ma, finora, molto mirate, essenzialmente d’intelligence, di cyberguerra. Quanto all’Iran, ha usato fondamentalmente il suo braccio armato, cioè Hezbollah, che è una filiazione dell’Iran ma allo stesso tempo è una realtà autonoma, perché è anche un partito libanese ed è una organizzazione certamente molto legata a Teheran ma che deve rispondere alla sua base sociale, alla comunità sciita libanese che rappresenta. Hezbollah è una realtà complessa, che non è riconducibile solo alla dimensione militare-terroristica. Per restare all’Iran, un altro proxy molto utilizzato sono gli Houthi yemeniti, utilizzati soprattutto contro i sauditi ma adesso anche contro Israele. E poi, Hamas. E qui c’è da registrare un qualcosa che in un certo senso ha spiazzato l’Iran.

Cosa, professor Silvestri?
Mettiamola giù così: con l’attacco del 7 ottobre 2023, Hamas ha fatto saltare il banco, nel senso che quell’attacco, secondo me, è stata una decisione autonoma di Hamas, ed è andato molto oltre qualsiasi pianificazione o aspettativa che potesse avere l’Iran d’indebolire Israele. Le dimensioni di quell’attacco, la sua crudeltà oltre che la pervasività, hanno, appunto, fatto saltare il banco e reso più difficile la gestione del conflitto nella dimensione di una guerra a bassa intensità. Quell’attacco ha alzato di molto il conflitto.

E Israele?
Netanyahu e una parte dell’opinione pubblica israeliana di destra, hanno visto, con quell’attacco, l’occasione per cancellare definitivamente l’ipotesi, per quanto eterea, di uno Stato palestinese oltre che la necessità di schiacciare Hamas. In realtà questa operazione, da parte israeliana, non è pienamente riuscita. Certamente, sul piano militare. Israele ha molto indebolito Hamas, distruggendo buona parte delle sue capacità operative, ma non l’hanno eliminata completamente e hanno condotto una guerra molto difficile da cui non sanno bene come uscire. E, cosa tutt’altro che secondaria, non hanno salvato la maggioranza degli ostaggi. La guerra di Gaza non è stata, finora, un grande successo per Israele.

Ed Hezbollah?
Si può dire che sia caduto nella trappola, spinto dall’Iran ma direi soprattutto dalla sua base. E ha cominciato a sostenere, ma non in maniera determinante, Hamas, aprendo un fronte a nord ma con un po’ di reticenza. Solo negli ultimi tempi Hezbollah ha intensificato il lancio di missili contro l’Alta Galilea. Se mi fosse permesso vorrei fare un passo indietro nel tempo e nella memoria.

Prego…
Mi ricordo la guerra del Kippur, nel 1973. Quando gli egiziani attaccarono nel Sinai, i siriani dovevano attaccare nel nord e lo fecero, per tenere Israele impegnato su due fronti.
Dopodiché, però, mentre Israele era impegnato a bloccare i siriani a nord, soprattutto usando la forza aerea, gli egiziani invece di approfittare di questo fatto, si limitarono ad attestarsi sulla sponda orientale del canale di Suez, che avevano riconquistato agli israeliani nel primo giorno di guerra, e non andarono avanti nell’attacco a Israele. In queste guerre, quando s’intende attaccare Israele da tutti i lati, in realtà il coordinamento manca, o comunque è alquanto deficitario, e gli interessi dei singoli paesi belligeranti fanno agio sulla cooperazione tra alleati. Per cui, in quella guerra, la Siria non insistette troppo nell’attacco e l’Egitto non andò in suo appoggio. Per tornare al presente, finora il rapporto tra Hezbollah e la guerra a Gaza assomigliava molto a questa situazione del ’73. Se non che verso la fine Hezbollah ha pensato di dover intensificare gli attacchi verso Israele e Israele non poteva accettare che una parte del proprio territorio non fosse più abitabile e ciò ha portato al contrattacco israeliano. Stavolta, però, a differenza di Gaza, condotto sì con l’apparenza di strutture di guerra ma in realtà come una enorme operazione antiterrorismo che ha decimato la struttura di comando, a tutti i livelli, di Hezbollah, con i vari tipi di attacchi che sono stati condotti, ridimensionando fortemente il partito di Dio sciita. La qualcosa aiuta Netanyahu perché gli fa recuperare consensi all’interno d’Israele rispetto al fallimento relativo di Gaza. A questo punto la difficoltà è dell’Iran.

Perché?
Perché l’Iran vede il rischio, a questo punto, di perdere una struttura, Hezbollah, molto utile in quanto le permette di completare il dominio di un arco sciita-arabo che va dall’Iraq fino al Libano. Se Hezbollah si indebolisce troppo, questo arco dominante s’indebolisce troppo. Da qui il passaggio dell’Iran a una fase offensiva per cercare di fermare le operazioni contro il suo maggiore proxy nell’area. Adesso bisognerà vedere quale sarà la risposta israeliana. Gli americani stanno suggerendo a Israele di dare una risposta che, come quella più recente, possa essere assorbita dall’Iran e consenta di chiuderla qui. Però potrebbe esserci anche la tentazione di Netanyahu di andare oltre.

Spesso si dice e scrive dei condizionamenti che gli Stati Uniti determinano nei confronti d’Israele. Ma a ben vedere non è vero l’opposto, cioè Israele che tiene in pugno l’America?
Direi che non è vero né l’uno né l’altro. Gli Stati Uniti sicuramente hanno la capacità di indebolire notevolmente Israele se decidessero di sospendere gli aiuti economici e militari che gli forniscono. Ma sarebbe una decisione altamente impopolare negli Stati Uniti e soprattutto politicamente assurda. Se gli Stati Uniti vogliono stare in Medio Oriente, Israele gli è utile. Il problema è che in questa fase la presidenza Biden è estremamente debole. Le elezioni si avvicinano, e non è detto che a Biden succeda Kamala Harris. La partita con Trump è aperta e il risultato finale per niente scontato. In questo scenario, Netanyahu può tranquillamente muoversi non ignorando in toto gli Stati Uniti ma in parte sì, non essendo condizionato come un tempo. C’è da aggiungere, sempre sul filo della memoria storica, che un tempo conflitti del genere venivano regolati non soltanto dalla volontà americana ma anche dalla concorrente volontà sovietica. Le due super potenze non volevano che altri le spingessero a fare cose con volevano fare, per cui, a un certo punto, interveniva, malgrado la permanenza del confronto, un congelamento del conflitto, quando Usa e Urss tiravano il freno. Oggi questo tipo di meccanismo non funziona più. Perché la Russia è impegnata in una guerra per riconquistare potere e influenza in Europa. Mosca in questa fase più che a pacificare, è interessata a distrarre il più possibile i suoi avversari. La Cina ancora non partecipa a questo gioco. O comunque non esercita un ruolo di primo piano. O sottovaluta i rischi o li sopravvaluta, fatto sta che in questo periodo non è un attore che contribuisce in maniera significativa a gestire le situazioni conflittuali e di crisi. Gli Stati Uniti da soli hanno una capacità limitata, anche perché la loro influenza sulla regione dipende anche dagli alleati che in quella regione hanno. E quelli presenti in Medio Oriente sono tutti alleati difficili. D’Israele si è detto, ma pensiamo anche, ad esempio, alla Turchia e all’Arabia Saudita. Se hai tre alleati di questo genere, hai molti più problemi che vantaggi. Sicuramente ti è molto difficile far sì che questi tre agiscano all’unisono, perché si odiano tra loro.

Abbiamo parlato di Stati Uniti, Russia, Cina. E l’Europa?
È sostanzialmente assente. Non pervenuta. L’Europa ha mantenuto dei rapporti con l’Iran ma non è riuscita in realtà a compensare l’uscita degli Stati Uniti, con la presidenza Trump, dall’accordo sul nucleare. Ha mantenuto rapporti con la Turchia, rapporti difficili dal momento in cui è diventato chiaro che la Turchia non entrerà nell’Unione europea. L’Europa ha mantenuto rapporti con i paesi arabi, con Israele, si schiera in grande maggioranza con gli Stati Uniti, ma non svolge un suo ruolo autonomo nell’area mediorientale, pur avendo presenze militari, come nel Golfo e nel Mar Rosso, e importanti interessi economici, ma politicamente non è attiva, al di là di alcuni pronunciamenti inefficaci di Borrell.

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