Intervista ad Alfredo D’Attorre: “I Macron d’Italia sono al tramonto, elezioni premiano il coraggio del Pd”

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Alfredo D’Attorre, responsabile Università nella Segreteria nazionale del Partito Democratico, si era detto che le elezioni europee e la tornata delle amministrative che le hanno seguite, sarebbero state una “prova del nove” per Elly Schlein. Promossa a pieni voti?
Beh, direi proprio di sì. Mi pare che anche dai ballottaggi nelle città venga la conferma di una tendenza positiva e piuttosto diffusa. Ora la segretaria, che aveva vinto le primarie di misura e assolutamente a sorpresa, ha la forza politica per proseguire in quel cambiamento profondo del partito che costituisce il segreto del suo successo. Pensi in che condizione sarebbe oggi il Pd, su temi come l’autonomia differenziata, le forzature parlamentari per imporre riforme costituzionali a maggioranza, il Jobs Act, i tagli alla sanità, la compressione dei salari, se non ci fosse alla guida una figura che biograficamente e culturalmente può rivendicare con credibilità una discontinuità rispetto agli errori del passato.

Per tornare al voto europeo. Quale Europa ne esce fuori?
Il dato centrale del voto europeo è la sconfitta delle forze di governo nei due Paesi cruciali dell’Unione europea, Germania e Francia. Come sempre, il voto delle europee è segnato da elementi di politica interna, ma stavolta sembra emergere anche un giudizio severo degli elettorati su come i governi dei due Paesi hanno esercitato la loro leadership europea, in particolare sul tema della guerra e sull’assenza di un ruolo dell’Unione nella ricerca di una via di uscita dai conflitti in Ucraina e in Medio Oriente. Sarebbe un errore ignorare questo messaggio e andare avanti come se nulla fosse successo. Dopo l’importante svolta post-pandemia, c’è stata una seconda fase della Commissione von der Leyen decisamente meno convincente. Blindare un accordo sulle nomine all’interno della maggioranza uscente, senza affrontare questo nodo, rischia di aprire ulteriori spazi alle forze nazionaliste e antieuropee.

Francia, Germania, Austria, Belgio… Un vento di destra imperversa in Europa. Come arginarlo?
Storicamente un clima e una retorica di guerra avvantaggiano sempre la destra. Dove la sinistra ha saputo parlare o tornare a parlare un linguaggio diverso, penso a Spagna, Portogallo e Italia, ha retto decisamente meglio, al netto delle specificità nazionali che pure contano molto. Se vogliamo contrastare l’avanzata della destra, sul rilancio di un autonomo ruolo diplomatico dell’Europa, sul rifiuto della transizione a un’economia di guerra, sul contrasto a ritorno a politiche di austerità, sulla critica alle politiche europee in materia di immigrazione, serve una sinistra che parli un linguaggio più chiaro e coraggioso. Come hanno iniziato a fare Elly Schlein e il Pd in Italia. Il fatto di essere la prima delegazione nazionale nel gruppo socialista ci consegna ora una responsabilità maggiore nello spingere la nostra famiglia politica europea verso posizioni più avanzate e lungimiranti.

Per tornare all’Italia. Alla crescita del Pd e all’inaspettato successo della Alleanza Verdi e Sinistra, fa da contraltare il flop del Movimento 5Stelle di Conte. Una crisi irreversibile?
Non credo. Il M5S ha ampi margini di recupero in vista delle prossime elezioni politiche, specie nell’area dell’astensione. Purché chiarisca definitivamente il suo orizzonte strategico. Come facilmente prevedibile, la resistenza a indicare in modo inequivoco il campo in cui intende giocare la propria partita non ha giovato al M5s. L’elettorato alternativo alla destra ha premiato posizioni più chiare e unitarie. Su questo Conte ha sbagliato. Allo stesso tempo, spero ora sia chiaro – anche a chi nel campo progressista negli ultimi anni ha individuato in lui il nemico principale, quasi più della destra – che, se saltasse lui, nel M5S non si determinerebbero certo equilibri più avanzati, per usare un linguaggio d’altri tempi…

Non pensa che, nonostante il successo del Pd, la costruzione di uno schieramento alternativo alla destra si presenta ancora molto in salita?
No, credo che il voto abbia detto con chiarezza che almeno metà dell’elettorato chiede un’alternativa alla destra e che in questo campo vengono premiate le forze, come Pd e AVS, con il profilo più unitario. È stato un messaggio molto potente: da questo punto di vista, dal 9 giugno sera il quadro è profondamente cambiato e, come ha osservato Elly Schlein, la «strada è segnata». È stata sepolta la velleità di un «terzo polo» ago della bilancia fra centrosinistra e centrodestra e sono state punite le furbizie di chi pensava di poter stare con un piede dentro e un piede fuori la coalizione. Il fatto che la strada sia segnata non vuole dire ovviamente che sia già stata percorsa: c’è un grande lavoro di sintesi politica e programmatica da fare rispetto alla società italiana, ma ora è chiaro che nessuno può rivendicare le proprie differenze per formulare veti o aut-aut.

Il fallimento delle liste centriste non è in prospettiva un problema anche per il Pd?
È un problema anzitutto per chi pensava di fare come Macron e di svuotare il Pd dall’esterno. Diciamo che alcuni liberali di casa nostra viaggiano con uno o due decenni di ritardo sulla Storia e, come nel caso della terza via blairiana, si aggrappano a modelli esteri quando questi sono già abbondantemente sulla via del tramonto. Detto questo, un componente più centrista e liberale può avere un suo spazio nello schieramento dell’alternativa. Vedremo chi tra i protagonisti dell’ex aspirante Terzo Polo avrà l’umiltà di capire il risultato elettorale e di contribuire a questa prospettiva, che richiede però un minimo di realismo e senso della misura.

Il voto europeo ha premiato, tuttavia, anche le forze di governo. La destra non è ora più forte per imporre le sue riforme?
Nonostante la perdita di voti in valore assoluto, la tenuta in percentuale delle forze di governo è un dato da non sottovalutare. Credo abbia inciso sia il fatto che il M5s ha lasciato molti voti nell’astensione, sia il modo in cui la destra è riuscita a neutralizzare il tema della pace e della guerra, assumendo nel corso delle ultime settimane una postura molto più cauta e defilata rispetto ai governi di Francia e Germania, puniti pesantemente dagli elettori. Ma il momento della verità si avvicina, di qui alla fine della legislatura la destra è attesa da tre leggi di bilancio molto pesanti e dall’impatto sul Paese di riforme sgangherate e divisive. Io continuo a non vedere un equilibrio che possa reggere fino al 2027.

È più preoccupato dall’autonomia differenziata o dal premierato?
Dall’autonomia differenziata, perché il premierato, se davvero completerà l’iter in Parlamento, sarà cancellato in un referendum costituzionale in cui non è previsto il quorum dell’affluenza e la destra non potrà giocare sull’astensione. Sull’autonomia differenziata va proseguita una battaglia a fondo, anche e soprattutto al Nord, spiegando al sistema produttivo italiano perché nel mondo d’oggi, segnato dalla competizione geopolitica e dai «capitalismi di Stato», rendere lo Stato italiano ancora più debole e sbrindellato è un gigantesco danno anzitutto per le imprese che investono, innovano ed esportano. E poi va rafforzato un rinnovato senso comune a favore dell’unità nazionale. È bello che la sinistra si sia riappropriata del tricolore: ora dobbiamo fare in modo che la Meloni avverta un percepibile senso di ridicolo e di vergogna ogni volta che pomposamente usa ancora la parola «Nazione», dopo la capitolazione di fronte ai più retrivi egoismi regionali.

Si può dire che con le europee è davvero nato il “nuovo Pd”?
Possiamo dire che ora ci sono tutte le condizioni perché nasca il nuovo Pd. Quello che sana definitivamente la frattura con i suoi mondi naturali di riferimento, che riporta al voto una parte degli astensionisti e che ha tutte le carte in regola per unire e guidare l’alternativa di governo alla destra.

La tragica morte di Satnam Singh ha riportato alla ribalta la cruda realtà del caporalato. Come fare per evitare il rischio che, passata l’ondata emotiva, tutto resti uguale?
È stato importante che il Pd, assieme alle altre forze di opposizione, sia stato presente a Latina, per rafforzare solennemente un impegno contro il caporalato e lo sfruttamento schiavistico del lavoro. Emerge anche la coerenza di alcune battaglie dei mesi scorsi: l’abolizione della Bossi-Fini e il salario minimo non sono due temi di propaganda, ma due tasselli indispensabili e integrati di un diverso modello di società e di economia. Un grande Paese avanzato non può accettare che una parte del suo sistema produttivo agricolo si regga strutturalmente sullo sfruttamento e sull’illegalità. Da Latina deve partire un movimento di lotta nazionale che rifiuta questo modello e impone una bonifica e una riconversione delle imprese che finora si sono rette su questi sistemi. Se ci fosse un ministro dell’Agricoltura, dovrebbe occuparsi anzitutto di questo: la sovranità alimentare non può certo fondarsi sullo schiavismo.

Il dibattito politico sembra quasi non tenere conto di un mondo sempre più segnato da conflitti, quali la guerra in Ucraina e in Medio Oriente. Che effetto ciò produce sul rapporto tra cittadini e politica?
Credo che abbia un impatto molto pesante, molto più di quanto emerga nelle analisi prevalenti. L’altro dato centrale delle ultime elezioni è che, per la prima volta in Italia in una consultazione nazionale, l’affluenza scende sotto il 50%. È un cambiamento enorme e inquietante, a cui la sinistra non può rassegnarsi. E, personalmente, credo che l’impotenza e talora l’afasia della politica di fronte ai conflitti sia stato ulteriore carburante per l’astensionismo. Se la politica democratica non riesce a fare e neppure a dire nulla di concreto di fronte al tema nuovamente decisivo di questa nostra epoca, quella della pace e della guerra, perché votare? Senza affrontare e vincere questa obiezione, non riusciremo a contrastare la marea dell’astensionismo.