Intervista ad Atef Abu Saif: “Israele o Palestina? No, la domanda è: siamo umani o no?”

RMAG news

Atef Abu Saif, ex ministro della Cultura dell’Autorità nazionale palestinese, unico scrittore palestinese tradotto in Israele, è autore di un libro di una forza emotiva e politica, oltre che di drammatica attualità, come pochi in circolazione: Diario di un genocidio. 60 giorni sotto le bombe a Gaza (edito da Fuoriscena, la nuova casa editrice RCS). Racconta nel libro Abu Saif: “L’ultima volta che ho visto mia suocera è stata la mattina in cui sono partito per il checkpoint di Rafah, per raggiungere l’Egitto. Mi ha sorriso, ha abbracciato mio figlio dicendogli: ‘Quando la guerra finirà, per favore, vieni a trovarmi’. La guerra non è finita. E lei è morta. Dopo una vita trascorsa in tende e campi profughi, finalmente è entrata in una casa stabile. La casa di Dio”.

È un libro, insieme, meditato e in presa diretta. È la cronaca limpida e feroce di una guerra senza fine, raccontata in presa diretta, dal primo giorno. È la testimonianza di una lotta per la sopravvivenza, nel corso di un viaggio dal nord della Striscia di Gaza fino al confine con l’Egitto. L’autore di queste pagine attraversa la sua terra mentre l’assedio e i bombardamenti israeliani si fanno sempre più intensi. Con lui ci sono il figlio quindicenne, Yasser, e la suocera settantenne, malata, che si muove su una sedia a rotelle (“Ha sofferto molto durante l’esodo. I soldati gridavano, minacciando di sparare se ci fossimo fermati. Mio figlio spingeva la sedia a rotelle mentre io sostenevo il corpo fragile di mia suocera. Il terreno sconnesso la faceva sobbalzare in avanti, in più di un’occasione è caduta a terra. In altri momenti, bisognava portarla in braccio perché la strada era piena di fango, distrutta, cosparsa di corpi e intrisa di sangue”).

Tra i parenti uccisi o mutilati di Atef c’è anche la madre della moglie Hanna, morta di stenti e per assenza di cure, cui lo scrittore dedica una postilla alla fine del libro. La suocera era nata settantasei anni prima nel nord di Gaza City in una tenda; è morta il 29 febbraio in una tenda nella Rafah assediata e bombardata dall’esercito israeliano, dopo essere stata sfollata, come la gran parte degli abitanti. Quello stesso giorno i palestinesi uccisi avevano ormai superato i 30mila e i soldati avevano sparato sulla folla affamata durante la distribuzione di aiuti umanitari, provocando la morte di 118 persone. Scrive Atef, con profonda amarezza, che sua suocera è da considerarsi fortunata, perché ha potuto essere sepolta in una vera tomba: “Questo è quello che significa ‘essere fortunati’ a Gaza”.

Racconta Abu Saif: “Il primo giorno di guerra un mio amico mi ha mandato un messaggio: ‘Cosa sta succedendo a Gaza?’ Ho risposto: ‘La domanda giusta non è cosa sta succedendo, ma cosa è successo in tutto questo tempo, da più di 75 anni’”. Di sé racconta: “Sono nato in un campo profughi, nel campo profughi di Jabalya, nel 1973 e credo che quando avevo due mesi sia iniziata la guerra del 1973. Quindi direi che, come la maggior parte dei palestinesi, sono nato durante la guerra e potrei morire durante la guerra. È così che inizia il mio romanzo candidato all’Arab Booker Prize, Una vita sospesa. Naim, il protagonista del romanzo, è nato durante la guerra e muore durante la guerra, e questa è la nostra vita di palestinesi. Quello che viviamo è il tempo della sopravvivenza. Noi non sopravviviamo. Il discorso normale è quello di essere uccisi e che la tua casa venga distrutta, come la mia casa in questa guerra. Quindi quello che viviamo è come un timeout. È un riposo. Quindi non è normale vivere. No, non è normale vivere”.

Il 5 ottobre scorso, due giorni prima dell’attacco sanguinario di Hamas contro Israele, Atef Abu Saif lasciava Ramallah, in Cisgiordania, dove vive con la famiglia, per raggiungere Gaza. Doveva essere un breve viaggio di lavoro e l’occasione per andare a trovare i familiari, che vivevano lì. Invece rimarrà intrappolato nella guerra più devastante di cui abbia memoria. Mentre ai giornalisti e ai fotografi di tutto il mondo è proibito entrare a Gaza e mentre i pochi che dall’interno provano a raccontarci ciò che accade rischiano la vita (quando questo libro è andato in stampa, erano 122 i giornalisti uccisi a Gaza).

Gaza, diario di un genocidio. Il suo libro è al tempo stesso una emozionante testimonianza di vita e un potente atto d’accusa. Eppure, in Italia, chiunque utilizzi la parola “genocidio” viene accusato di antisemitismo.
Se ciò che accade a Gaza secondo il diritto internazionale è genocidio, allora è genocidio. Allora come si può spiegare il fatto che sia stato impedito l’ingresso di cibo, acqua e beni di prima necessità nel nord di Gaza per i primi 8 mesi di guerra? Come puoi spiegare che mio padre è morto a causa della fame e dell’inedia che hanno prevalso nel campo di Jabalya, a nord della città di Gaza, durante i primi mesi del 2024. Aveva bisogno di 12 tipi di medicine, di cui solo 4 erano disponibili perché l’esercito israeliano impediva l’accesso a qualsiasi assistenza medica. Nessun essere umano può accettare ciò che sta accadendo a Gaza. Ciò che sta accadendo è anti-umano. Dobbiamo decidere se siamo umani o no, perché se non alziamo la voce contro tutto questo stiamo perdendo la nostra umanità. Questa non è una presa di posizione politica. Non si tratta di scegliere se sostenere i palestinesi o Israele. Si tratta di decidere se si è pronti o meno a dichiarare la propria posizione morale ed etica.

Nei media, i morti di Gaza sembrano non fare più notizia.
La guerra dura da quasi un anno. Il fatto che non occupi più spazio nei notiziari non sminuisce le atrocità e le brutalità. Queste aumentano giorno dopo giorno non perché aumentino gli attacchi, che pure ci sono, ma perché le condizioni di vita della popolazione, dopo un anno di sfollamento e di vita nelle tende, stanno duplicando le sofferenze. Le persone ora lottano per coprire le loro tende in modo da non essere affogate dalla pioggia. Quindi, le notizie di volta in volta perdono interesse, questo è vero e previsto, ma ci sono ancora le foto e i video che gli abitanti di Gaza diffondono sui loro social media. Ricordo che quando è iniziata la guerra non c’era nessun giornalista straniero a Gaza. Nessuno. E dopo un mese la maggior parte dei corrispondenti locali è partita per il sud. Sono nate nuove forme di copertura mediatica e molti giovani uomini e donne hanno portato con sé i loro cellulari e hanno iniziato a raccontare la loro vita. Alcuni di loro sono diventati reporter per i canali più seguiti. Quindi è cambiato il tipo di copertura, ma non che la guerra sia qualcosa di inaccettabile e che i crimini commessi dagli israeliani vadano denunciati.

In questo scenario da incubo, c’è ancora spazio per una pace basata sul principio “due popoli, due Stati”?
La soluzione dei due Stati è l’unico accordo che i due popoli e i loro leader hanno discusso. Era sempre possibile raggiungerla quando sono iniziati gli accordi di Oslo, ma il governo israeliano ha fatto di tutto per considerarla un fallimento. Non si tratta di chiedersi se vogliamo la pace o no, ma di chiedersi se siamo pronti a spingere per la pace. Credo che senza misure severe da parte della comunità internazionale per imporre la pace, la pace non possa essere raggiunta. Si pensi alla discussione sull’accordo per il cessate-il-fuoco. Netanyahu è pronto a passare altri 10 anni a discuterne e a negoziarlo. Purtroppo, la comunità internazionale non è pronta a fare nulla che possa spingere Israele a temere l’accusa di antisemitismo. Dobbiamo distinguere tra l’opposizione alle politiche israeliane in Cisgiordania e a Gaza e l’antisemitismo. Alla fine, tutti i popoli della regione sono semiti, compresi noi palestinesi. Ci sono poche possibilità di salvare la soluzione dei due Stati. Fermare la guerra e dare potere all’Autorità palestinese a Gaza come parte di un’unica entità politica in Cisgiordania e a Gaza può essere il primo passo per rilanciare la soluzione dei due Stati. Se questo non funziona, credo che dobbiamo guardare a un altro paradigma, cioè alla soluzione di un solo Stato. Non c’è altra via d’uscita.

Se dovesse usare un termine per definire il sentimento prevalente tra i palestinesi oggi, quale userebbe?
La maggior parte dei palestinesi di Gaza vuole che la guerra cessi. Hanno sofferto e hanno perso membri delle loro famiglie e case. Sono arrabbiati con tutti per il fatto di essere stati lasciati soli. Sentono di essere stati traditi. Il loro unico sogno è quello di svegliarsi e scoprire che la guerra è finita. Vogliono tornare alla loro vita normale. Non pensano ad altro. Vogliono solo vivere.

Cosa rappresenta Hamas nella società palestinese?
Hamas fa parte della società palestinese, anche se non sei d’accordo con essa. E in qualsiasi futuro processo democratico non potrà essere escluso. A Gaza molti lo incolpano per quello che è successo, molti no. Ma credo che Hamas abbia perso molta della sua popolarità a Gaza durante la guerra. Tuttavia, non si può considerare questo come un giudizio definitivo. Gli islamisti e l’estrema destra fanno sempre parte dell’opinione della gente, come in una società europea dove anche la politica cristiana è importante. Ma senza elezioni non si può giudicare.

Cosa si sente di chiedere oggi all’Italia e all’Europa?
Come palestinesi facciamo una distinzione tra l’opinione e il sostegno di molti popoli europei, soprattutto italiani e di alcuni paesi mediterranei, e quello del loro governo. È triste che finora un paese come l’Italia non riconosca lo Stato palestinese. Sono felice quando vedo graffiti sui muri degli edifici che recitano: “Palestina libera, stop alla guerra”, ecc. I palestinesi aspirano alla giustizia e alla pace e dovrebbero essere aiutati in questo. Senza la creazione di uno Stato, questa aspirazione non può essere soddisfatta e la pace non può prevalere. L’Europa deve fare molto per renderlo possibile.

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