La democrazia è in crisi perché il lavoro ha perso valore

RMAG news

Per una fortunata e stimolante coincidenza, l’Unità del 23 maggio propone due articoli tra loro correlati e contigui, per le questioni evidenziate e per le analisi che vengono proposte.

Mi riferisco all’intervista di Marcelle Padovani e all’articolo di Michele Prospero. Vorrei, se possibile, entrare in dialogo con loro, dal momento che temi e problemi sono analoghi a quelli di cui ci occupiamo, soprattutto in questo periodo, nella Fondazione Di Vittorio.

Dove risiede la prima naturale contiguità pur avendo per oggetto due storie nazionali apparentemente differenti? Marcelle sostiene che l’Italia resta in Europa un grande laboratorio politico.

Michele, analizzando l’affermazione e l’identità dell’Afd tedesca, come pericolo reale e come fascinazione collettiva dell’antipolitica di matrice neonazista, resta convinto che si tratti di un “partito popolare capitalista”, acefalo quanto si vuole, ma di certo guidato da forti interessi padronali.

In realtà la riflessione sull’Europa sollecitata da Marcelle Padovani e l’analisi di Michele Prospero dal mio punto di vista conducono allo stesso esito: senza una forte spinta democratica, senza rimettere al centro della politica il lavoro e i diritti di cittadinanza sociale, le destre, anche quelle estreme, inevitabilmente finiscono per occupare tutti gli spazi possibili di governo come di opposizione.

Accade nella Germania dell’Afd che punta perfino a legittimare le SS, e accade nell’Italia del 9 ottobre 2021 quando un “manipolo di camerati” (poi condannati) assalta la sede nazionale della Cgil in Corso d’Italia a Roma, e pochi mesi dopo vincono le elezioni gli eredi di Almirante.

Questa deriva non avviene all’improvviso. La gabbia democratica costruita intorno al capitalismo dopo la Seconda guerra mondiale è stata scardinata anno dopo anno, utilizzando ogni crisi come un pretesto, affermando un senso comune precostituzionale, ovvero, ciò che il mercato decide è giusto di per sé.

Parola d’ordine: rimercificare ciò che si era demercificato, cioè il lavoro in quanto parte della vita umana. Le rinnovate regole austeritarie della governance economica dell’Unione europea alimenteranno questo scenario.

Che Europa vogliamo, se essa spinge ai margini il lavoro e le persone che lavorano, intese ormai come merce tra merci? Se spinge ai margini la conoscenza e la formazione come strumenti fondamentali per comprendere la complessità ed esercitare la cittadinanza democratica?

L’alternativa alla deriva neoliberale, che Trentin vedeva chiaramente già in atto negli anni Novanta, era un paradigma produttivo fondato sulla qualità del lavoro, la centralità dell’ambiente e sull’estensione dei diritti di cittadinanza.

Il suo europeismo era quello di Delors e della Strategia di Lisbona ma quell’idea si è chiaramente scontrata con l’ideologia economica mainstream a cavallo tra monetarismo e ordoliberismo.

Una ideologia che distruggendo intere comunità ha preparato l’avvento delle destre nazionaliste e post fasciste. Tuttavia, è solo nella ripresa di una diffusa partecipazione democratica che l’alternativa sarà possibile.

Occorre quindi restituire al lavoro la sua dignità e la sua dimensione politica, la sua voce, ma la chiave è quella della democrazia. I nostri referendum hanno questo significato.

Se non hai voce ascoltata nel lavoro, se i diritti diventano progressivamente privilegi, smetti di credere che dalla politica, poi dallo Stato e da ultimo dalla partecipazione democratica possano arrivare risposte.

La crisi dell’Europa oggi è la crisi della democrazia sociale, ed è una crisi di fiducia che riguarda chi dalla democrazia sociale dovrebbe sentirsi protetto ma invece si sente tradito.

Non ci stancheremo mai di ripeterlo: se la vera crisi della democrazia è la crisi della partecipazione, ciò dipende dalla progressiva perdita di valore del lavoro.

La politica ha cancellato il lavoro dalla sua agenda da molti anni assecondando la deriva di un modello sociale plasmato sull’idea che tutto può essere ridotto a merce, a partire dalla vita che si esprime nel lavoro, passando per l’istruzione, la salute e l’ambiente.

In questo, la sinistra politica ha una responsabilità specifica, avendo scelto di allontanarsi dalle vicende del lavoro salariato da molto tempo, quando prevalse l’idea che il vero obiettivo risiedesse nella conquista del governo a prescindere dai programmi.

Ciò che nelle prime pagine di quella che è l’apice della sua raffinata riflessione politica, La città del lavoro, Trentin aveva definito come il trasformismo della sinistra.

Sulla base di queste considerazioni mi pare chiaro che il conflitto sociale, non esercitato dalle forze democratiche, finisce per essere conquistato dalla destra nazionalista, ovunque in Europa. Insomma, il conflitto sociale democratico e costituzionale deve sfidare l’egemonia delle destre in Italia e in tutta Europa.

Conflitto sociale e partecipazione democratica diffusa a sostegno di una diversa politica dello sviluppo umano, basata sulla giustizia sociale e ambientale, praticabile se si riducono le disuguaglianze e se ci battiamo tutti per rendere concreto l’esercizio dei diritti di libertà, per la conoscenza critica, per il lavoro liberato.

*Presidente Fondazione Di Vittorio