La sinistra e il campo inesistente

RMAG news

La forma superiore di opposizione è la creazione.
(L. Kopelev)

La “sinistra” arretra, complessivamente, in quasi tutta Europa, incalzata dalle forze conservatrici, per lo più di estrema destra. È il risultato di molteplici fattori, strutturali in primo luogo, ma insieme anche culturali e ideali. Cominciando a venire meno il predominio unipolare dell’Occidente, ne risente pure la sua supremazia economico-produttiva; il welfare viene eroso, aumentano l’occupazione precaria e le zone di indigenza e povertà; gli immigrati, che pure sono indispensabili nell’industria e nell’agricoltura, diventano oggetto di paure largamente propagandate; la finanza, anziché rivolta a creare ricchezza reale, è protesa voluttuosamente a gonfiarsi di denaro derivandolo da altro denaro, in una speculazione continuativa.

Se poi consideriamo la ripresa spasmodica della corsa agli armamenti (in primis la Germania) e la frenesia bellica in relazione alla guerra Russia-Ucraina-Usa-Nato, è ovvio che le persone – tendenzialmente sempre più preoccupate, alienate e persino impoverite – si rannicchino nella “consolazione” illusoriamente securitaria della destra, senza capire che la sua medicina è peggiore del male, perché tende ad aggravarlo e a prolungarlo. Il caso della Germania è, a questo riguardo, emblematico. La Spd e i Verdi sono da tempo in fase di profondo ripiegamento, incapaci di progettualità alternativa rispetto alle “ragioni” di cui si nutrono le forze di destra. Sotto questo profilo il caso italiano è illuminante (ancor più di quello francese).

La sinistra in Italia

Dopo due anni di governo Meloni è facile constatare che la sua relativa forza deriva dalla debolezza della “sinistra”. Sia il Pd sia i 5Stelle sono tutti protesi, quando va bene…, a immaginare l’alternanza, anziché l’alternativa alla situazione esistente. Non si rendono conto che nella società dell’1% – con quella congrega di nababbi che è arrivata a controllare beni e ricchezze superiori a quelli del 99% dell’umanità – il riformismo non ha, di fatto e nella sostanza, alcuno spazio di realizzazione effettiva. Se non si mette in discussione, sul piano culturale e politico – e dunque pratico – l’assetto attuale dei poteri dominanti, ci si limita semplicemente, per dirla con Gramsci, a voler “cambiare spalla al fucile”, producendo un mutamento fittizio. È in questo modo che il contrasto alle forze conservatrici diviene aleatorio perché, magari in forme diverse, percorre la stessa strada. Controprova: negli ultimi trent’anni si sono alternati governi di centro-destra, di centro-sinistra e tecnici: guarda caso i salari dei lavoratori sono rimasti invariati e persino sono stati erosi.

L’alternanza come assemblaggio di velleità e impotenze, sommatoria aritmetica e insufficiente di energie, al posto della loro moltiplicazione. Questo, non altro, si è rivelata la tiritera sul “campo largo”, sul “campo giusto” (e chi più ne aveva ne metteva…). Non è importante chi sia stato a decretarne l’inesistenza, se Renzi o Conte o la Schlein con il suo inconcludente barcamenarsi fra i due. Il fatto rilevante è che quando la maggiore forza “riformista”, il Pd, su una questione fondamentale come la guerra Russia-Ucraina-Usa-Nato porta avanti la stessa posizione del governo, quale può essere la sua credibilità di… alternante? I 5 Stelle, che si sono sempre definiti né di destra né di sinistra (chi dice così, di solito, è più di destra che di sinistra), si trovano in difficoltà crescenti, per l’aspro contenzioso Grillo-Conte. L’esito complessivo è che il “riformismo” pesta l’acqua nel mortaio. Così, ad esempio, sulla carneficina di Israele contro i palestinesi che cosa aspettano le forze “riformiste” a prendere una iniziativa dirompente, come l’occupazione del Parlamento per chiedere con determinazione al governo italiano di riconoscere lo Stato palestinese? Ci fosse stata oggi la pattuglia dei parlamentari di Democrazia proletaria, noi lo avremmo fatto da tempo.

Il passaggio dall’alternanza alla costruzione dell’alternativa richiede la ripresa di grandi e durevoli movimenti di lotta. Il solo modo, questo, anche per riattivare l’impegno di quella metà circa di cittadini che non va più a votare, disgustati dalla politica della inconcludenza autocelebrativa. Quei movimenti attualmente non sono all’orizzonte, ma bisogna non dimenticare che la storia può riservare svolte improvvise. Ad esempio: nessuno riuscì a prevedere l’insorgere del Sessantotto e della sua dimensione e simultaneità planetaria. Non si tratta certo di vivere retrovolti. Al contrario: dinanzi alle nuove e drammatiche insidie di oggi – in particolare i mutamenti climatici e il rischio incombente che i conflitti in corso inneschino l’impiego delle armi nucleari – c’è bisogno di qualcosa di più e di meglio di quanto avvenne circa mezzo secolo fa.

È giunto il momento che i popoli irrompano sulla scena del mondo, dato il fallimento dei governi derivante dalla loro incapacità e non volontà di affrontare e risolvere le aggravate emergenze della contemporaneità. Non ci sono scorciatoie praticabili e il “riformismo” è un vicolo cieco. D’altra parte solo grandi e coinvolgenti movimenti di lotta possono fare emergere dirigenti credibili e capaci di indicare e determinare la svolta necessaria degli esseri umani in direzione della pace e della giustizia fra le persone e i popoli. Si dirà: campa cavallo… Eh! Sì, il punto è ben questo: se il “cavallo” vuole vivere, deve proprio mettersi a galoppare. Il tempo non è propizio all’attesa. Dunque è urgente l’impegno di noi tutti.

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