L’Europa non può fare a meno dell’Italia

L’Europa non può fare a meno dell’Italia

Il Quotidiano del Sud
L’Europa non può fare a meno dell’Italia

Con il pragmatismo e l’esperienza che lo contraddistinguono, il premier polacco Donald Tusk (già Presidente del Consiglio europeo e leader dei Popolari europei) ha ricordato quanto sia fondamentale l’Italia per il processo di integrazione in Europa. Ribadendo la necessità che le principali nomine europee siano frutto di mediazioni svolte includendo Roma, in realtà Tusk ha lanciato un sibillino messaggio: è Roma in quanto tale ad essere importante, prima ancora che il suo attuale Presidente del Consiglio.

L’Italia, per la sua storia di membro fondatore, per la sua collocazione geopolitica e per le sue continuità in politica estera e difesa non può essere marginalizzato in Europa. Si tratta di un primato storico-istituzionale, ben prima che politico contingente. Partire da questa considerazione di Tusk è funzionale ad analizzare come il nostro Presidente del Consiglio si è approcciato alle nomine dei cosiddetti “top jobs” europei. Meloni e il suo entourage sono parsi prigionieri di un’analisi distorta dell’esito del voto del 9 giugno e hanno poi applicato una strana e peculiare interpretazione dei meccanismi istituzionali alla base delle nomine europee. Rispetto al primo punto, o prima incomprensione, gli ambienti di Palazzo Chigi sembrano non essersi resi conto che non è avvenuto alcuno sfondamento da parte delle forze della cosiddetta destra alternativa o estrema destra o destra nazional-conservatrice o nazional-populista. Il partito popolare europeo ha retto il potenziale urto proveniente da quegli ambienti e ha anche aumentato il numero dei suoi eletti.

Nessuno vuole sottostimare ciò che è accaduto in Francia e in Germania. Ma occorre ricordare che l’ottima performance di AfD riguarda un partito lontano anni luce dall’ipotesi di arrivare al governo del Paese. Si tratta di una forza che, in particolare nell’area orientale del Paese, ha chiare venature neonaziste, sicuramente prodotto di un’insoddisfazione e di una crisi diffusa, ma non assimilabile ad un nazional-conservatorismo di governo. Rispetto all’exploit del Rassemblement National di Marine Le Pen, che quasi sicuramente si ripeterà alle prossime legislative del 30 giugno, si deve ricordare che anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un partito che non ha mai partecipato ad alcun esecutivo nazionale e che peraltro appartiene ad una famiglia europea che non è quella dei conservatori e riformisti di Meloni.

Quindi primo strabismo: gli equilibri politici europei si sono modificati solo sensibilmente e al massimo si può parlare di uno spostamento, relativo, del baricentro dei popolari verso destra, in larga parte a scapito delle forze liberal-ecologiste. Rispetto al secondo punto, non è risultato chiaro sin dai primi passi che la cosiddetta scelta dei top jobs nasce dal combinato disposto di due mediazioni: una tutta interna al Consiglio europeo e l’altra legata al voto a maggioranza del Parlamento europeo, per ciò che riguarda l’incarico di Presidente della Commissione. Una sorta di partita che si gioca su un doppio tavolo. Dal primo tavolo Meloni ha fatto il massimo per farsi escludere. Ha condotto l’ultima settimana di campagna elettorale per le europee rincorrendo Salvini e lo slogan “mai con i socialisti al governo dell’Europa”. Vi ha poi aggiunto il trionfale sbarco a Bruxelles in occasione della cena informale del 17 giugno con l’incontro a tre con Orban e Moriawiecki. Non le migliori premesse per trovare uno spazio nella confermata maggioranza popolari/socialisti/liberali già schierati con i loro rispettivi negoziatori.

Rispetto al secondo tavolo i giochi sono, come è ovvio, ancora aperti, dato che il voto del Parlamento europeo è atteso per la metà di luglio. Peraltro, il contributo del nutrito drappello di eletti di Fratelli d’Italia è più che gradito da Ursula von der Leyen, a rischio franchi tiratori nel segreto dell’urna di Strasburgo. Su questa possibile “vittoria” di Meloni pesa però una doppia ipoteca. Sia Ursula, sia Giorgia difficilmente potranno “sbandierare” questo successo. La neopresidente perché socialisti e liberali preferirebbero una “stampella ecologista” a quella dei “fratelli italiani”. La stessa Meloni perché dovrebbe implicitamente ammettere di essersi “mescolata” a socialisti e macroniani per dare “continuità” ai cinque precedenti anni di von der Leyen.

Il punto dirimente resta comunque sempre il solito: quale obiettivo politico ha Giorgia Meloni nel suo operato di Presidente del Consiglio sul terreno europeo? Le ipotesi in campo sono due. Vuole invertire la rotta del progetto di integrazione europea ponendosi alla guida di un non meglio definibile blocco nazional-populista, un magma disomogeneo che ora rischia di passare da due gruppi a tre (con Orban al lavoro per costituire una sorta di nuova Visegrad a Strasburgo), se non addirittura a quattro (con AfD alla ricerca di non frequentabili nuovi alleati)? O vuole portare idee alternative e correttive (peraltro necessarie) al processo di costruzione, integrandosi nel blocco maggioritario, lavorando dall’interno e soprattutto avvicinandosi a quei popolari europei che costituiscono l’imprescindibile asse attorno al quale ruota la leadership dell’Europa comunitaria dell’ultimo ventennio? La risposta non è banale, riguarda qualcosa che va al di là della dimensione ideale e insiste sul più volte citato, proprio da Meloni, ruolo dell’Italia nello spazio euro-mediterraneo.

L’attivismo italiano, addirittura la leadership nazionale nell’area, non potranno essere incentivati ponendosi alla guida di una non meglio definita “internazionale sovranista”. E questo prima di tutto perché “internazionale sovranista” è una espressione ossimorica: i partiti cosiddetti sovranisti, a partire dal potenzialmente dominante Rassemblement National in Francia, non incentiveranno di sicuro una leadership euro-mediterranea del nostro Paese e più in generale non hanno alcuna visione comune su temi quali la gestione dei flussi migratori, il rapporto con il sud globale e l’approvvigionamento energetico, solo per fare alcuni esempi. Un noto cantante pop italiano a fine anni Novanta ricorda quanto sia importante la “dura legge del goal”, il presidente del Consiglio in Italia nel corso di questo mese di giugno sembra aver provato “la dura legge dell’Europa”. L’ipotesi di un’Italia marginalizzata indebolisce sicuramente la spinta propulsiva dell’Europa. Ma Roma deve prendere atto di quanto sia necessario “giocare la partita” seguendo le “regole del gioco europeo”. L’alternativa non è una marginalizzazione subita, ma un’irrilevanza cercata (e forse a quel punto anche un poco meritata).

Il Quotidiano del Sud.
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