Luigi Manconi racconta la sua malattia: “Sono cieco non ipovedente, ma non sono la mia cecità”

RMAG news

Un’oscillazione tra senso di colpa e senso del ridicolo. Senso di colpa perché chi ha un handicap non può fare a meno di pensare di essere un po’ colpevole (e così non fosse c’è la società che provvede a farlo sentire tale), senso del ridicolo perché una certa goffaggine, nei movimenti di un cieco o ipovedente, è inevitabile, e la goffaggine è una di quelle condizioni che provoca situazioni buffe, che inducono al riso.  È questo, secondo Luigi Manconi, il cuore della sindrome della cecità, da cui nasce un grande gioco di finzione tra il cieco e gli altri, e spesso anche tra il cieco e se stesso (Manconi ammette che a volte cede alla tentazione di fingersi vedente impegnato a simulare la cecità: dura pochi secondi e lo lascia sfinito e triste, ma è una tentazione insopprimibile).

Sociologo, politico, grande difensore dei diritti umani (è stato presidente della Commissione per la Tutela dei Dritti Umani e ha creato l’onlus A Buon Diritto) e critico musicale appassionato, Luigi Manconi racconta nel suo ultimo libro La scomparsa dei colori (Garzanti) come sia entrato lentamente nel mondo di una cecità «lattiginosa, a tratti caliginosa, talvolta con sprazzi perfino luminescenti», sperimentando di questo percorso accidentato, non scontato né prevedibile, gli improvvisi arresti, le speranze e le illusioni – specialmente quella di poter tornare indietro, lasciarsi alle spalle il terrore del buio –, i precipizi e le scoperte. Una battaglia? «“Battaglia” è un termine bellicista che non mi piace, che ho serenamente abbandonato da anni. Ma posso usarlo per dire che se quella contro la cecità è stata una battaglia, allora io questa battaglia l’ho persa».

Attenzione, però. L’handicap non è semplicemente un “mancare di”. Apre mondi. La corteccia visiva, deprivata degli abituali input, reclama una nuova funzione, e allo stesso tempo il cervello ridestina aree preposte normalmente a gestire altro a sviluppare abilità nuove o rafforzarne di già esistenti. E anche di più. John M. Hull, docente di teologia a Birmingham scomparso nove anni fa, nel suo Il dono oscuro: nel mondo di chi non vede racconta come, arrivato gradualmente alla cecità profonda, si sia trovato in un mondo completamente a sé stante, dotato di una propria autenticità e autonomia, in cui riusciva a vedere/capire “con tutto il corpo”, per cui, ad esempio, notava che le gocce di pioggia che cadevano sul vialetto avevano un suono diverso da quelle che cadevano sul prato, sui cespugli o sulla siepe vicina alla strada. Compensazione, certo. Ma anche un intero nuovo ordine, una sensazione prima sconosciuta di sé e di sé nel mondo.

In qualcuno, diventato cieco, si accresce e affina il senso del tatto, come nel matematico e botanico John Gough, mentre in qualcun altro si acuisce l’immaginazione tattile, ed è il caso del matematico Bernard Morin, che riteneva questa immaginazione responsabile di molte sue scoperte, e c’è anche chi, famoso per questo il matematico Zoltan Torey, sviluppa il suo occhio interiore, costruendosi un perfetto mondo visivo virtuale (al punto che Torey scrisse di riuscire a proiettarsi all’interno di sistemi e macchinari visualizzando così anche le possibili soluzioni dei guasti). Per Manconi il senso privilegiato è l’udito: per divertimento, scommessa con se stesso e necessità, prova sempre a delineare il volto e i mille particolari della persona che gli sta parlando, così come di un oggetto che sta emettendo suoni, o persino di interi, sonori scenari. Quanto a un nuovo ordine, a un nuovo mondo, in lui coincide con una specifica percezione del tempo, che adesso si focalizza sul qui e ora: «Vivo in una dimensione rattrappita del futuro. La quotidianità è molto faticosa, anche nelle piccolissime imprese come versare lo zucchero nel caffè senza sbagliare clamorosamente la mira, e questo mi spinge a concentrarmi sul presente, a rattrappirmi, appunto, sul presente».

Tante le questioni da affrontare. Quello che è stato ed è ancora terreno di impegno politico, come la scelta di parole giuste, non offensive («Sono rimasto tra gli ultimissimi in Italia a sostenere le ragioni e a rispettare le regole del politicamente corretto»), diventa anche scelta per sé, per autodefinirsi. «Parlando di coloro che si trovano nella mia condizione uso il termine non vedenti, mentre, se mi riferisco a me, dico: cieco. Io non sono ipovedente bensì cieco. E come tale voglio essere considerato e, di conseguenza, chiamato… A me, quella formula (ipovedente), proprio non piace. Intanto perché mi sembra ingannevole: il suono della parola valorizza quel “vedente” e sembra, quindi, affermare ciò che in realtà si vuole negare. La carenza o assenza della vista, cioè. E, poi, mi suona come una definizione tecnico-sanitaria che nulla dice di me e di come io viva il mio handicap».

Duecento pagine per raccontare proprio questo, come lui personalmente viva il suo handicap. Tra stati di allucinazione e difficoltà nell’imparare a dettare, sogni colorati o in bianco e nero e manutenzione degli occhiali, rapporti con gli altri (che carini, quando dicono «Non si capisce proprio, che tu sia cieco, sai?») e ordine nei cassetti, e quell’androne, quell’accidente di androne che dopo anni, attraversato almeno due volte al giorno, ancora non è diventato familiare e rappresenta costantemente un problema. Per terminare con un concetto importante, basilare, che dà oggi più che mai a Luigi la chiave, il senso del suo vivere: il concetto di grazia.

«Quindici anni fa» spiega, «appresi un principio elaborato dalla Chiesa Cattolica, la grazia di stato. È quel principio per cui una persona che viva una condizione di forte sofferenza, una grave disabilità, un dolore senza scampo, proprio quando pensa di non avere più risorse ne trova dentro sé, e sono risorse che non sapeva di avere. All’epoca avevo conosciuto familiari di vittime di violenza di Stato. Si trattava in molti casi di persone prive di qualunque risorsa culturale, economica, e che pure erano riuscite a restare vive e a fronteggiare quello che era accaduto. Ecco, la mia condizione di cecità ha fatto emergere capacità di cui prima ero ignaro, qualcosa di intenso ed efficace».

Continua nel suo impegno sociale e politico, Manconi. Non importa che non sia più senatore, convinto com’è che la politica ormai si faccia altrove: nel nuovo ambientalismo, nel cercare di far entrare in quel luogo polveroso che è il Parlamento, tra quei polverosi umani che vi siedono, l’idea che amnistia e indulto siano ora la cosa più ragionevole che si possa fare, e che soccorrere in mare è doveroso. Il non vedere complica operazioni pratiche, ma non preclude e non modifica, anzi li irrobustisce e affina, pensiero e volontà. Perché, sia chiaro a tutti: «Io sono cieco, ma non sono la mia cecità».

Please follow and like us:
Pin Share