Mani Pulite fu un golpe, ma la sinistra resta muta per paura dei Pm

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“In un Paese normale”, come amava un tempo dire Massimo D’Alema, l’intervista rilasciata due giorni fa da Giovanni Pellegrino al Corriere della Sera avrebbe fatto moltissimo rumore.

Rivela infatti quanto poco sia stato scritto e capito sulla realtà di una delle fasi più cruciali della storia italiana, l’epoca di Mani Pulite e del tracollo della Prima Repubblica, e quanto anche quel poco sia stato edulcorato e camuffato.

Pellegrino allora occupava una posizione eminente: era senatore di punta del Pds e presidente della Giunta per le autorizzazioni a procedere di palazzo Madama: buona parte di quella tumultuosa vicenda passò sul suo tavolo.

Era anche uno dei pochi garantisti del Pds ex Pci nella fase nella quale la sinistra compì una scelta rivelatasi poi irreversibile: appoggiare sempre e comunque il potere togato, per convinzione o più spesso per convenienza. Il racconto di prima mano di Pellegrino, invece, è caduto praticamente nel vuoto.

Il presidente della Fondazione Einaudi Giuseppe Benedetto ha suggerito che sarebbe opportuna una commissione d’inchiesta. La coordinatrice di Italia viva Raffaella Paita ha promesso di sostenere la proposta.

Tutti gli altri hanno fatto finta di niente: il Campo largo perché non ha alcuna intenzione di rivedere la decisione di sostenere sempre e comunque la magistratura e tantomeno di indagare sulle origini di quel tacito patto. La destra perché, a maggior ragione con la riforma costituzionale della giustizia in campo, teme di passare per “nemica della magistratura”.

Del resto è roba di ieri, materiale per gli storici, possibilmente per quelli di domani e meglio ancora se di dopodomani. La politica è sin troppo impegnata nella futilità delle baruffe e degli schiamazzi quotidiani.

La versione di Pellegrino, però, meriterebbe un approfondimento meticoloso. L’ex senatore afferma che il finanziamento illecito riguardava tutti i partiti, incluso il Msi, anche se nel Pci Togliatti aveva organizzato le cose, ai tempi dei finanziamenti dell’Urss, in modo che i dirigenti politici non fossero coinvolti.

L’invadenza e le ambizioni della magistratura di conquistare il primato sulla politica per Pellegrino erano chiare, evidenti e a volte confessate.

D’Alema però, quando provò a toccare quel tasto, lo mise a tacere sostenendo che i giudici stavano “facendo una rivoluzione”, a fronte della quale qualche esagerazione negli avvisi di garanzia o nei mandati di cattura era poca cosa.

Aggiungendo però che “Luciano”, cioè Violante, gli aveva assicurato che Mani pulite “non se la sarebbe presa” con il Pds. Invece Titti Parenti, secondo Pellegrino approfittando di un momento in cui tutti i colleghi di Mani Pulite erano per diversi motivi assenti, proprio con il Pds provò a prendersela e a quel punto “D’Alema capì che delle assicurazioni di Violante non poteva fidarsi”.

Lo stesso D’Alema, del resto, “faticava a seguire la linea giustizialista, perché convinto del primato della politica e perché non aveva stima delle varie corporazioni giudiziarie”. La scelta del Pds, insomma, fu più travagliata di quanto non racconti la leggenda delle “toghe rosse”.

Il Pci, dopo una lunghissima fase di diffidenza e sfiducia nei confronti della magistratura, aveva di fatto delegato alle toghe l’intera battaglia contro il terrorismo, a partire dagli anni della solidarietà nazionale e in quella fase Violante si era imposto come figura di raccordo tra il Bottegone e le toghe.

Ma nei primi anni 90 almeno una parte del vertice era diviso tra il sostegno a un’inchiesta che eliminava uno per uno tutti i rivali politici e la difesa di un primato della politica che sapeva minacciato.

Con sensibilità e forse per motivi diversi sia il segretario Occhetto che il suo rivale e futuro successore D’Alema oscillavano tra il sostegno alla “rivoluzione” dei giudici e la diffidenza nei confronti della voracità e l’invadenza delle toghe.

Non ebbero né la forza né il coraggio di opporsi. Perché la base, da loro stessi indirizzata in quel senso, non li avrebbe appoggiati e nessuno di loro aveva la statura necessaria per sfidare gli umori della base.

Perché nel partito l’ala giustizialista era forte. E perché l’entrata in campo di Berlusconi e il braccio di ferro che subito fu ingaggiato tra lui e i giudici non lasciava a D’Alema, diventato nel frattempo segretario, molto margine d’azione.

Ma in quegli anni cambiarono, con effetti esiziali, sia l’equilibrio dei poteri dello Stato sia il dna di un ex Pci che diventò definitivamente giustizialista, pronto persino a sacrificare la riforma costituzionale condivisa che la bicamerale di D’Alema aveva faticosamente messo a punto pur di non sfidare il veto dei magistrati che pretendevano che la riforma non toccasse il capitolo giustizia.

Da allora quel partito ha cambiato nome e più segretari. Ma il passo fatale mosso in quei primi anni 90 non lo ha mai rimesso in forse e non lo sta facendo neppure il “nuovo” Pd di Elly Schlein. Non fosse che per questo a chiedere di rivedere a fondo quella storia dovrebbe essere per primo proprio il Pd di Elly