“Maricire dentro” non è solo uno slogan da propaganda

RMAG news

Lo scorso 13 agosto, ho partecipato a una visita al carcere Lorusso e Cutugno di Torino organizzata dal dipartimento Carcere del Movimento forense, dall’associazione Nessuno tocchi Caino, dalla Camera penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta e con il sostegno del consiglio dell’Ordine forense di Torino. Vi hanno partecipato anche esponenti parlamentari e delle amministrazioni locali, in forza al Pd.

Alcuni partecipanti non erano mai entrati in carcere, altri conoscevano quello torinese per motivi professionali. Pochi di loro si erano mai spinti sino all’interno di una sezione detentiva, con tutto quello che ne comporta in termini di reazione emotiva. L’eterogeneità dei visitatori, non tutti pienamente consapevoli della realtà carceraria, ha conferito alla visita, più che una connotazione “ispettiva”, la duplice connotazione dell’approccio religioso-cristiano e di quello laico-politico, di pannelliana memoria. La visita è iniziata incontrando la direttrice e la responsabile dell’area educativa che hanno illustrato la struttura e le sue criticità, è proseguita con la visita ad alcune sezioni detentive maschili e femminili e si è conclusa con le interviste dei giornalisti all’uscita.

Nessuna novità dalla visita, causa lo tsunami mediatico, ingenerato dagli eventi critici e drammatici che da tempo si succedono in quel carcere, così come nei restanti carceri italiani. Il sovraffollamento, la fatiscenza, la inadeguatezza e la disumanità delle strutture, le carenze gestionali degli Istituti e della Magistratura di sorveglianza, rese più drammatiche dall’elevato numero di suicidi tra i detenuti e il personale di custodia, sono le costanti del carcere nazionale. Criticità peraltro che hanno portato, nei primi mesi di questa torrida estate, a Torino come altrove, alla protesta più o meno violenta dei detenuti, tanto adulti quanto minori. Resta il fatto che visitare un carcere, ogni volta è spunto di nuove riflessioni e stimoli, anche per il visitatore più navigato. I suoi muri continuano a lasciare attoniti per come sono concepiti e si palesano, tanto da sembrare destinati a contenere cose e non persone.

Il loro degrado materiale e la sciatteria degli ambienti sconcertano e non trovano giustificazione alcuna. Ma non sono questi i veri motivi che stimolano la riflessione. È l’umanità detenuta e “detenente” che, per la sua condizione di vita e di lavoro, rende ogni volta unica la visita e agita la mente. Quel giorno, nel carcere torinese, mi ha colpito, su tutto, il grido di aiuto – disperato e drammatico – di una giovane detenuta che diceva: «Ho un tumore al seno, mi sento abbandonata, mi sento marcire dentro, aiutatemi». In quelle parole ho visto racchiuse tutte le storture del nostro sistema detentivo e il senso e il valore delle visite in carcere. Il verbo “marcire” mi ha evocato spietati slogan propagandistici e lo stato di abbandono e perdizione dell’attuale condizione detentiva. Quella richiesta di aiuto ha palesato lo smarrimento e l’impotenza mia e dei visitatori; visitare i carcerati – come opera di misericordia o meno – è certamente opera meritoria ma non sufficiente per mutarne le sorti. Il problema va affrontato alla radice superando il carcere, che si è rivelato ormai ovunque fallimentare. Solo un pensiero visionario potrebbe rimuovere quel “fossile chiamato carcere”, secondo l’espressione di Corrado Marcetti.

È necessario non andare alla ricerca del carcere migliore, ma di cercare qualcosa di meglio, come Sergio D’Elia da tempo va sostenendo. Al suo pensiero affianco quello di Mauro Palma che, in occasione della pausa ferragostana, ha invitato quanti a vario titolo sono impegnati nella vicenda penitenziaria, a una pausa utile a riflettere per dare vita a una opposizione culturale (…) a quelle culture ormai stancamente consolidate. La necessità prospettata è quella di ipotizzare un modo diverso di costruzione di un pensiero altro – divergente e anche utopico – circa la risposta alla domanda ineludibile «Come rispondere alla commissione del reato?», ben diversa dalla domanda su cosa fare dell’autore del reato stesso. Ma, al contempo, dal momento che il carcere ancora esiste e a lungo ancora esisterà, per considerazione e rispetto delle persone dolenti, disumanamente e inutilmente detenute, non va persa la dimensione pragmatica dell’azione. In attesa di chiudere le carceri, alla stregua di come si è fatto per i manicomi, anche se a qualcuno potrà sembrare contraddittorio, rimane imperativa la necessità e l’obbligo, “hic e nunc”, di affermare in quei luoghi democrazia e stato di diritto che, come afferma Rita Bernardini, è necessità vitale culturale e quindi politica.

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