Mesoraca, la lunga scia di sangue della lupara bianca

Mesoraca, la lunga scia di sangue della lupara bianca

Il Quotidiano del Sud
Mesoraca, la lunga scia di sangue della lupara bianca

Dopo l’agguato al buio a Mesoraca tre giovani scomparvero nel nulla: una lunga scia di sangue ricollegata dai giudici alla “lupara bianca”

MESORACA – Nel buio più totale, dopo aver disinstallato la pubblica illuminazione per compiere un agguato, un commando composto da quattro uomini in passamontagna si scagliò contrò colui che era ritenuto la vittima predestinata, ma era un errore di persona: Bruno Saporito, che aveva caratteristiche fisiche simili a quelle di Tommaso Fontana, fu scambiato con quest’ultimo, il vero obiettivo.

Il primo a ferire la vittima, colpendola all’addome con un coltello da cucina, fu Eugenio Ferrazzo, poi divenuto collaboratore di giustizia. Udite le urla di dolore, si accorse di aver sbagliato persona, ma continuò a infierire temendo di essere riconosciuto dalla voce o che i suoi complici venissero avvistati; tuttavia, quell’attimo di incertezza favorì una reazione della vittima e si sentì come colpito da una coltellata in testa. L’agguato culminò, dopo le coltellate inferte più volte dagli aggressori, con due colpi di pistola sparati da uno dei killer.

È «una vera e propria confessione» quella di Eugenio Ferrazzo, scrive la Corte d’Assise di Catanzaro presieduta da Massimo Forciniti nelle motivazioni, appena depositate, della sentenza con cui l’imputato è stato condannato a 14 anni e tre mesi di reclusione per due omicidi e un tentato omicidio risalenti all’annus horribilis 2000, quando a Mesoraca imperversava una guerra di mafia tra gruppi criminali contrapposti guidati da due cugini. Eugenio Ferrazzo è nipote di Mario Donato Ferrazzo, il boss di Mesoraca. Sotto accusa era finito anche Felice Ferrazzo, padre dell’imputato, divenuto collaboratore di giustizia prima del figlio e successivamente deceduto.

I due pentiti si erano autoaccusati dell’uccisione di Bruno Saporito avvenuta per un errore del commando assassino. Era il 7 gennaio 2000. Il 24 agosto dello stesso anno venne ucciso Giuseppe Manfreda, freddato da un commando che non si fece scrupoli del fatto che la vittima predestinata viaggiasse con la moglie e due neonati, i figli gemelli della coppia di due mesi appena. Manfreda venne raggiunto da diversi colpi di fucile kalashnikov. I killer erano a bordo di un’auto Alfa “33” che speronò il veicolo su cui viaggiavano i Manfreda facendolo finire fuori strada. L’alfetta venne poi rinvenuta bruciata. Poco prima, nel centro abitato di Mesoraca, i killer avevano tentato di compiere l’omicidio di Armando Ferrazzo, che era alla guida di un’auto Volkswagen “Golf”. I colpi, sempre di fucile d’assalto, raggiunsero la Golf e Ferrazzo riuscì a mettersi in salvo.

In questo contesto, Felice ed Eugenio Ferrazzo subirono un agguato. Felice, che insieme al cugino era a capo dell’omonimo clan di Mesoraca ma perse il comando dopo un lungo periodo di detenzione, e il figlio Eugenio, nell’ottobre 2000, finirono nel mirino dei killer ma si salvarono perché erano a bordo di un’Alfetta blindata. Felice Ferrazzo divenne collaboratore di giustizia in seguito a quell’attentato, e successivamente si pentì anche Eugenio.
Oggi Eugenio non riveste più lo status di collaboratore di giustizia ma il pm Pasquale Mandolfino ha tenuto conto dell’attenuante per il contributo fornito sui fatti di sangue oggetto del processo e ha chiesto la condanna a dieci anni di reclusione.

La Corte presieduta da Massimo Forciniti ha concesso l’attenuante della collaborazione ma non quelle generiche e ha inflitto una pena più alta. La Corte ha, inoltre, condannato l’imputato al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite, assistite dagli avvocati Giovambattista Scordamaglia, Elisa Fontana e Marco Rocca, rinviando alla sede civile per la quantificazione.
Nelle motivazioni della sentenza vengono valorizzate, insieme a intercettazioni provenienti da altri procedimenti antimafia, le «dichiarazioni intrinsecamente attendibili» di Eugenio Ferrazzo, che, tra l’altro, ha precisato anche il movente fornendo «un quadro chiaro dei fatti». Un quadro che collega questa catena di sangue al caso dei tre scomparsi di Mesoraca.

Fontana aveva minacciato di morte Aurelio Lombardo Somma, uno del gruppo capeggiato da Felice Ferrazzo e dal figlio Eugenio, contrapposto a quello guidato da Mario Donato Ferrazzo, il cugino di Felice, che aveva assunto il comando a Mesoraca e dintorni dopo la carcerazione di quest’ultimo. «Ferrazzo ha sostenuto che, a seguito di una lite avvenuta giorni prima in un pub», il commando voleva “fargliela pagare”. «Ferrazzo – rilevano i giudici – ha sottolineato come a compiere l’azione fossero stati in quattro (lui stesso, Aurelio Lombardo Somma, Francesco Zinna e suo cognato Emilio Mazza) e come avessero compiuto appostamenti prima di agire».

La sera dell’omicidio, l’imputato si trovava a una festa in un ristorante dove era anche Fontana, lì per spacciare, a quanto pare, perché andava e veniva da casa sua, a pochi passi. I quattro disattivarono le luci pubbliche lungo il tragitto che faceva Fontana attendendo l’arrivo della vittima predestinata nei pressi della sua abitazione. Intravista una sagoma simile alla sua nell’oscurità, i quattro si scagliarono contro l’obiettivo, Ferrazzo frontalmente e gli altri da dietro. L’aggressione non si placò neanche quando i killer si rendono conto del clamoroso errore. E così inizia la precostituzione dell’alibi. «Emerge dal dichiarato che, dopo essere ferito alla testa, Ferrazzo si era recato a casa di Domenico Ruberto dove aveva ricevuto le prime medicazioni dopo essere stato accompagnato da Francesco Zinna e Aurelio Lombardo all’ospedale di Campizzi».

Degli altri quattro che avrebbero avuto un ruolo nell’agguato, come evidenzia lo stesso Ferrazzo, soltanto lui e il cognato Mazza sono sopravvissuti. Aurelio Lombardo, Francesco Zinna e Domenico Ruberto (quest’ultimo non era fisicamente presente al momento del delitto ma avrebbe compiuto diversi sopralluoghi) non ci sono più su questa terra, vittime di lupara bianca. «Erano stati uccisi, il 29 giugno 2000, quindi sei mesi dopo la morte di Saporito, su mandato dei Comberiati di Petilia Policastro» ai quali, racconta sempre il pentito, era legato suo zio Mario Donato Ferrazzo, ormai boss riconosciuto dalle altre consorterie criminali.

La rappresaglia era contro quel gruppo ristretto ma agguerrito capeggiato dal cugino Felice, dedito a traffici di stupefacenti e furti, di cui facevano parte il figlio Eugenio e i tre desaparecidos di Mesoraca. La strategia in quegli anni, come ha raccontato il pentito Salvatore Cortese, ex braccio destro dell’allora boss emergente Nicolino Grande Aracri, il capocrimine ergastolano di Cutro, era «togliere di mezzo» tutti coloro che si sovrapponevano alla supremazia delle consorterie criminali alleate.

Il Quotidiano del Sud.
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