“Netanyahu vuole salvare solo il suo potere”, l’accusa dei familiari degli ostaggi di Hamas

RMAG news

Il suo nome è Sharone Lifshitz. Artista e regista, Sharone è la figlia di Oded Lifshitz, tenuto in ostaggio da Hamas a Gaza dal 7 ottobre. La sua testimonianza, pubblicata da Haaretz, emoziona, commuove e fa pensare. È il racconto di un dolore indicibile, di un’attesa angosciante e, al tempo stesso, è un possente j’accuse nei confronti di chi sta sacrificando la vita degli ostaggi per salvaguardare il proprio potere.

Così Sharone Lifshitz: «“I terroristi ci hanno portato in un magazzino di Gaza dove venivano conservate le verdure. Non avevo gli occhiali, perché me li avevano portati via, ma vidi una figura sul pavimento, distesa con una tunica bianca intrisa di sangue, e capii che si trattava di Oded Lifshitz”. Questa fu la prima prova che mio padre, Oded, era ancora vivo, 53 giorni dopo essere stato catturato da Hamas il 7 ottobre dalla sua casa nel kibbutz Nir Oz. Questa preziosa testimonianza ci è stata fornita da Ada Sagi, un’insegnante di ebraico e arabo di Nir Oz in pensione, che ha compiuto 75 anni nella prigionia di Hamas, ma che è stata rilasciata durante lo scambio di ostaggi/prigionieri avvenuto a novembre tra Israele e Hamas. Ada ci ha raccontato di essere stata prigioniera con lui a Gaza. Quello sguardo di mio padre a fine novembre ci ha fornito la pepita di speranza che ci ha fatto lottare per 11 mesi per il suo rilascio e per il rilascio degli altri ostaggi. Da allora non ci sono stati più segni di vita».

D’allora è iniziata un’attesa angosciante e, insieme, la determinazione a lottare per la sua liberazione. Scrive Sharone: «Quando ripenso all’ottobre 2023, penso a quanto eravamo tutti innocenti, così sicuri che il nostro paese, il nostro governo, avrebbe fatto tutto il necessario per salvare gli ostaggi, a partire dai più vulnerabili. Compreso tu, papà, anziano, in cattive condizioni di salute e ferito quando sei stato rapito. Sento che mi dici: “Salva i bambini, salva i giovani, ho avuto una vita piena”. Ma il governo Netanyahu non sta salvando i bambini, né sta salvando te, un uomo di 84 anni. Non c’è giorno o ora in cui non pensi a te, papà. Mi chiedo: A cosa stai pensando? Stai soffrendo? Hai paura? Cosa ti è passato per la testa mentre eri sdraiato fuori dalla nostra casa, sul sentiero, ferito e sanguinante mentre vedevi la tua casa e l’intero kibbutz avvolti dalle fiamme? Cosa ti è passato per la testa vedendo centinaia di terroristi e civili palestinesi che rapivano i nostri figli e trasformavano in rovine il kibbutz che avevi costruito con tanto amore? Ti sei chiesto: Dove sono i soldati? L’esercito? Chi salverà i bambini? Chi si assumerà la responsabilità di tutto questo? E ancora: Cosa hai pensato mentre eri sdraiato lì, nel magazzino di verdure di Gaza, intriso del tuo sangue, mentre assistevi con i tuoi occhi a ciò che avevi messo in guardia per anni: che l’impegno degli zeloti messianici di Israele a governare i territori occupati, invece di raggiungere accordi con i nostri vicini sarebbe sfociato in un’esplosione di terrore. “Quando i nostri vicini non hanno nulla da perdere, noi perdiamo alla grande”, hai scritto su Haaretz nel 2018».

Sharone ci fa amare il suo anziano padre. È come se lo conoscessimo da sempre. È come se fossimo accanto a lui «Per vent’anni sei stato incrollabile: eri convinto che l’iniziativa di pace della Lega araba del 2002 fosse una base logica per avviare i negoziati e per porre fine al conflitto arabo-israeliano, per creare un accordo regionale che soffocasse l’ascesa del fondamentalismo. Ed eccoti ora, nella tua vecchiaia, ferito e ammaccato, abbandonato nei tunnel di Gaza da tutti coloro che erano stati incaricati della tua sicurezza, guidati dal Primo ministro. Stai subendo le conseguenze del rifiuto di impegnarti in una soluzione negoziata, del rifiuto di scegliere di garantire la nostra sicurezza. La vostra sicurezza».

Sharone racconta, in modo semplice, e per questo coinvolgente al massimo, la sua quotidianità. «Trascorro le mie giornate immaginando conversazioni con te, cercando di capire cosa potresti dire o pensare di ciò che sta accadendo qui, in questo momento. Quanto sia incomprensibile. Domenica mattina ci siamo svegliati con la terribile notizia che altri sei ostaggi sono stati uccisi in cattività. Altre sei famiglie la cui lotta degli ultimi 11 mesi è finita in tragedia. Altri sei mondi in frantumi, altre sei uccisioni insensate di civili innocenti, ognuna delle cui vite era un mondo intero. Solo questa settimana abbiamo seppellito sei persone che avrebbero potuto sopravvivere se il nostro governo avesse scelto di ascoltare la stragrande maggioranza di questa nazione, che crede nell’assoluta sacralità della vita e nel ritorno degli ostaggi. Ada ci ha raccontato come hai cercato la mamma. Di come hai cercato di scoprire cosa le fosse successo. Di come non potevi sapere che era stata liberata poche settimane dopo essere stata presa prigioniera. Ora, mamma e tutti noi stiamo cercando da molti mesi di capire cosa ti è successo. Ci battiamo in ogni occasione, su ogni piattaforma, per la sacralità della tua vita e di quella di tutti gli altri. Da mesi perdiamo sempre più ostaggi che sono sopravvissuti al rapimento e alla prigionia, per poi essere uccisi dai loro rapitori o dalle nostre forze (anche se in quest’ultimo caso si parla di “uccisione” e non di “omicidio”)».

La conclusione è intrisa di amore, dolore, rabbia e determinazione a non mollare. E la figlia, su Haaretz continua così: «Papà, da quando sei stato rapito, tutto è diventato politico. La nostra vita e la nostra morte sono un argomento di discussione pubblica. Persone che non ho mai conosciuto mi mandano foto della tua casa bruciata. Non c’è privacy. La tua voce è assente, le tue parole stanno scomparendo. Un’ombra pesante aleggia su tutto e tutti, l’ombra del tuo continuo abbandono. L’ombra dell’insopportabile pensiero che, fin dall’inizio, il governo israeliano ha colto la nostra insondabile perdita come un’opportunità. “Cosa è successo lì, come è potuto accadere?”, ho chiesto a una giovane donna che aveva completato il servizio militare nella divisione di Gaza solo pochi mesi prima del 7 ottobre. “Sapevo, sapevamo che ci sarebbe stato un grande evento”, mi ha risposto. “E sapevamo che i nostri sistemi si sarebbero bloccati’. “Allora perché non c’erano soldati in carri armati vicino a Nir Oz? Perché gli avamposti militari erano vuoti?”. “Chiedilo al Primo ministro”, ha risposto».

Così conclude Sharone Lifshitz. Siamo con lei, con il suo anziano padre, con i suoi compagni di sventura. E con le tante e i tanti che in Israele quella domanda la continuano a porre a Benjamin Netanyahu, e a battersi per avere risposta. E perché chi governa Israele sta sacrificando coscientemente la vita degli ostaggi per una impossibile “vittoria totale” contro Hamas.

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