Papa Francesco abbraccia i migranti e si commuove: “Siamo tutti fratelli”

RMAG news

La mano di papa Francesco stava toccando quella cicatrice che solca tutto il braccio di Ibrahima. E per lunghi minuti di silenzio, quel gesto ha riempito il gelo del dolore, che tutti abbiamo respirato sentendo il racconto della tortura. Non la sfiorava la cicatrice, come per sentire i contorni, né si muoveva lungo la sua lunghezza. Francesco stringeva la sua mano sopra quel taglio rimarginato, coprendolo con tutto il palmo. Abbracciava la cicatrice, per farla sua. Non c’era più bisogno che il giovane scrittore senegalese, torturato nei lager libici e poi riuscito a fuggire via mare, descrivesse più niente. Il papa, con la testa china e gli occhi chiusi, stava toccando quel dolore, ci stava entrando dentro. “Vi hanno causato le ferite nell’anima, oltre a queste che segnano per sempre i vostri corpi” dice Francesco, alzando gli occhi velati dalle lacrime. Seduti in cerchio attorno a lui, nell’atrio di Santa Marta dove il Santo Padre accoglie i visitatori, noi eravamo impietriti.

“Eppure siamo fratelli tutti, fratelli tutti… Siamo fratelli tutti, non dobbiamo perdere la speranza!”. Una frase a fil di voce con la forza di un grido, per ripetere prima di tutto a sé stesso una verità che si scontra, ogni giorno, ogni secondo, con la realtà di questo mondo, che ne è l’opposto. La realtà cruda come la carne scavata da un coltello rovente, che ti sbatte in faccia, ghignante, l’orrore. La frase sussurrata da Francesco sembra come quel “Abbà, Padre!” che Cristo invoca sulla croce quando per un attimo sembra anche lui averla persa la speranza. Ibrahima si toglie gli occhiali, e si passa l’altra mano sul volto, rigato dalle lacrime. La ferita nell’anima è più difficile da rimarginare. Di fronte a lui, alla sinistra di Francesco, è seduto un altro ragazzo, viene dal Gambia. Si chiama Ebrima Kuyateh, e ha attraversato mezza Africa per finire poi nell’inferno libico. “È lì caro papà, che mi hanno venduto come schiavo”. Lo chiama papà, proprio come un figlio farebbe con suo padre, mentre si rivolge al pontefice. Il racconto di Ibrahima delle torture, ha svegliato in lui l’incubo, i mostri. “Ci hanno catturato i militari, e poi ci hanno detto che eravamo stati venduti come schiavi, che la nostra vita non era più nostra, ma di un padrone che aveva pagato”. Anche lui ha scritto un libro – Io e i miei piedi nudi. Storia di un viaggio 166 pagine, Ed. Tau – si alza e lo porge al papa. “Grazie papà, grazie di tutto. Grazie per le tue preghiere, per non averci mai dimenticato”.

Trema, si porta una mano agli occhi, respira forte. L’emozione per questi testimoni del nostro tempo è grandissima, palpabile. E l’amore con cui li guarda e li ascolta Francesco è ancora più grande. Il papa ha in mano i libri, quello di Ibrahima LoPane e acqua e quello di Ebrima. “Loro sono i testimoni – dice il Papa – di quello che accade nel Mediterraneo, che è stato trasformato in un cimitero”. Francesco volge lo sguardo dall’altro lato della stanza, dove stanno seduti Don Mattia e Pato. “Pato, tu come stai adesso? Hai trovato lavoro? Ti hanno dato i documenti?”. Pato è il ragazzo che ha perso sua moglie sua figlia nel deserto, uccise dalla deportazione. Quella foto ha fatto il giro del mondo, e ha mostrato cosa significhi deportare. Far morire di sete una bambina, a fianco della sua mamma. Far pensare al suicidio il giovane padre, vivo per miracolo ma condannato da quell’immagine terribile. La deportazione nel deserto provoca più morti che il mare. È la tecnica adottata dai regimi ai quali l’Unione Europea e l’Italia di fermare i migranti in cambio di soldi e appalti. La deportazione nel deserto è efficace come tecnica, più dei lager e dei centri di detenzione. Si portano di notte, si mollano donne, uomini e bambini tra le dune desolate al confine con la Libia e l’Algeria se lo fa la Tunisia, al confine con la Mauritania nel caso del Marocco, senza acqua né cibo. I cadaveri si dissolvono presto, diventano sabbia che si mescola ad altra sabbia. Le tracce spariscono in fretta, ma tanto chi li cerca? Non ci sono, nel deserto, navi di soccorso.

“Santo Padre, sto bene. Sono a Treviso adesso, ma non mi hanno ancora dato i documenti e quindi, non posso lavorare” – risponde Pato.Tu lo sai che io ho nel cuore tua figlia, tua moglie, e penso anche a te.”. Francesco adesso si rivolge a noi: “Ditemi cosa devo fare per aiutare”. Parliamo di questo, di come aiutarci gli uni con gli altri. Questi “testimoni” ripetono sempre “grazie”. Grazie a papa Francesco, grazie a noi, grazie all’Italia. Quel “grazie” anteposto ad ogni altra parola, sembra lanciare un messaggio: in tutto l’orrore che abbiamo vissuto, noi comunque vediamo anche tante cose per cui rendere grazie. Ed ecco che proprio nel mezzo di questo straordinario incontro, che risuona dentro di noi, la risposta a quella disputa tra la verità sussurrata dal papa – “eppure siamo fratelli tutti, tutti…” e la realtà creata dall’uomo, dalle sue politiche, dal suo potere, dalle sue logiche che provocano tanta sofferenza: c’è il male, e tanto, ma c’è anche il bene che ti fa dire grazie, nonostante tutto. E il messaggio dei testimoni è che questo “bene”, questa fraternità, questa solidarietà, è più forte di tutto il male. Perché vale di più, scende in profondità, si radica, diventa forma di vita. Potremmo dire, usando categorie filosofico politiche e non teologiche, che si tratta del principio di “rovesciamento”, secondo il quale la realtà del dominio, della violenza, della sopraffazione contro i più deboli, va rovesciata e utilizzata proprio per costruire le pratiche di liberazione collettiva.

Di fronte a tutti i piani cinici e malefici, disumani, del respingimento dei migranti e dei profughi, una moltitudine si sta organizzando nel loro “rovesciamento”, e proprio quel male, così strutturato da diventare “politica”, è l’occasione per sperimentare le mille forme del “bene”, che si basa sulla fraternità e non sull’esclusione. “Santo Padre, adesso che l’incontro è finito, recitiamo insieme una preghiera”. La voce di Don Mattia Ferrari, ultimo degli ultimi nelle gerarchie cattoliche, ma così legato al primo dei primi, il papa, che lo chiama “il mio enfant terribile”, è dolce ma ferma. “Facci pregare tu, Don Mattia” dice Francesco. “Io? Ma no Santo Padre, c’è qui Lei…”. “Don Mattia, fai tu, noi ti seguiamo”, ribatte Francesco, in un gesto con il quale vuole sottolineare come vorrebbe la sua Chiesa, dove gli ultimi sono i primi. Ci alziamo, ci stringiamo mano nella mano, e preghiamo. Per i fratelli e sorelle rinchiusi nei centri di detenzione, per quelli dispersi nel deserto, per quelli in mare. Perché Dio ci dia la forza di continuare a cercarli, di non abbandonarli alla follia umana. Fratelli tutti, tutti, tutti.