Parla Fausto Bertinotti: “È finita l’era della politica, oggi è solo spettacolo”

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Presidente Fausto Bertinotti, parlare in pubblico richiede non solo competenze e talento, ma tecnica e studio. Bisogna prepararsi i temi, organizzare il discorso, dosare aneddoti o citazioni. Lei ha una regola d’oro?
Intanto, premetto che il tipo di discorso pubblico a cui la mia esperienza professionale e politica fa riferimento è il comizio, non la conferenza. La prima norma che ho sempre seguito è partire dalla stretta attualità e dalla costruzione dell’ordine del giorno per poi risalire al conflitto, che è il cardine di ogni comizio. L’elemento decisivo è la proposta di un punto di vista dichiarato a cui vincolare i soggetti in campo. Non bisogna avere la vocazione ecumenica né voler accontentare tutti. E poi evitare di confidare in risorse tecniche: a decidere è la teatralità. Il comizio è un’arte specifica che trova la sua maggiore rassomiglianza con il teatro.

Tra le risorse tecniche a cui fa riferimento ci sono anche dati, cifre, statistiche e percentuali? George Bernard Shaw invitava a usarli con parsimonia: «Spesso ci si attacca ai numeri come gli ubriachi si attaccano ai lampioni, non per farsi illuminare ma per farsi sostenere».
Questa scelta dipende dallo stile dell’oratore. Ho assistito a conferenze con oratori di grande efficacia in cui i numeri contavano molto. È evidente che invece nel modello simil-teatrale del comizio che propongo io la loro importanza è limitata.

Quanto conta l’interazione con il pubblico? E lo stile oratorio deve cambiare a seconda dell’uditorio?
Il pubblico conta sempre, a prescindere dal numero di persone che lo compone. Il principio dell’arte comiziante è lo stesso se si abbia di fronte 10 persone o 100mila. A contare è ciò che Antonio Gramsci chiamava la connessione sentimentale tra il popolo e l’oratore: se scatta, il comizio funziona; altrimenti fallisce. Ma non ho mai modulato la vis oratoria a seconda del pubblico, sarebbe stato un errore.

La sua voce è molto riconoscibile. Quanto contano per un oratore il tono e l’impostazione vocale?
La voce è legata alla percezione che il pubblico ha dell’oratore. Questo lo dico da fruitore, da ascoltatore di discorsi pubblici. Ci possono essere voci diversamente ma egualmente penetranti: dipende dalla personalità di chi si esprime. Palmiro Togliatti aveva un’espressione molto modulata, costruita, pacata, ma dietro di lui c’erano il carisma e l’autorità della cattedra. Pietro Nenni aveva l’impeto e il vigore del tribuno, ma se lo poteva permettere. Ogni comizio è fatto da quella persona e da quel pubblico, non ce ne sono due uguali. Come L’Opera da Tre Soldi con la regia di Giorgio Strehler è diversa dalla stessa opera messa in scena da altri.

Lei è stato dirigente della Cgil e presidente della Camera dei Deputati. Erano più facili le trattative sindacali o il governo dell’aula?
Il governo dell’aula è un esercizio semplice, non comporta alcuna difficoltà dal punto di vista dell’oratoria. La trattativa è molto più complicata, si tratta di fare fronte all’imprevisto e all’ipotesi che non è stata considerata nell’elaborazione della strategia. In ogni caso, sono due esercizi incomparabili.

Qual è il discorso più difficile che ha pronunciato?
Lo ricordo benissimo, fu a Genova in occasione del G8 del 2001, subito dopo l’uccisione da parte delle forze di polizia del giovane militante Carlo Giuliani. La pressione in quel momento era fortissima. A quell’epoca ero segretario di Rifondazione Comunista e mi fu chiesto di andare in piazza Alimonda e intervenire per cercare di evitare la reazione dei manifestanti che avrebbe probabilmente aggravato la spirale di violenza. Parlai e pensai: ce l’ho fatta. Ma fu molto dura, mi veniva da piangere.

Qual è stato invece il discorso che le ha dato più soddisfazione?
La soddisfazione per me è legata anche alla gioia. Penso agli interventi in occasione del 25 Aprile o del 1 Maggio, occasioni in cui senti che la grande storia passa anche attraverso la tua voce.

Oltre a lei, Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini, Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Romano Prodi, Pierferdinando Casini. La scorsa generazione di politici annoverava più campioni di oratoria rispetto a quella attuale. Come mai?
Non è una questione di generazione bensì di storia diversa. In passato la politica era intesa come organizzazione del conflitto del popolo, oggi appare sottoposta alla legge dello spettacolo come del resto l’intera società, secondo la definizione di Guy Debord. Un oratore si distingue per il suo stile, se finisce per essere omologato il comizio muore. Viceversa, nei talk show contano modelli a cui tutti si adeguano. E oggi la politica è show.

Quale dei politici della scorsa generazione, secondo lei, è il più convincente nel discorso pubblico?
Non si può giudicare prescindendo dall’adesione alla tesi politica, sia pure in grado maggiore o minore. Togliatti parlava a 100mila persone nello stesso modo in cui si sedeva ad una conferenza di alto livello. Ma la storia dei comizi risiede nei grandi oratori del movimento operaio. Ricordo Pietro Ingrao e Giorgio Amendola, come si racconta dei comizi straordinari di Giuseppe Di Vittorio da segretario della Cgil. Si dice che siamo nani seduti sulle spalle di giganti, ma oggi i giganti sono scomparsi dalla scena e non c’è più il comizio, semplicemente. Era il manifesto espressivo delle grandi politiche del Novecento ed è morto con la fine di quel secolo.

*L’intervista è tratta dal libro “Appunti di public speaking” di Andrea Camaiora e Federica Fantozzi pubblicato da The Skill Press