Partire e soffrire per cercare qualcosa: in ogni migrante c’è qualcosa di noi

RMAG news

Un romanzo tra Reggio Calabria, Londra e il Marocco, che parla di migrazione, di identità nomadi, di minoranze discriminate, perfino di rivoluzioni finite in una “poltiglia di sangue e di rumore”, ma evitando qualsiasi tono lamentoso! Tangerinn (E/O) di Emanuela Anechoum, italiana di padre marocchino, è uno dei più promettenti esordi della stagione. Qualche anno fa sarebbe stata associata ai “migrant writers”, ma questa etichetta – a suo tempo utile per indicare una letteratura sommersa di italofoni e immigrati di seconda e terza generazione – è diventata ormai una definizione riduttiva e perfino ghettizzante.

La grande invenzione del romanzo di Emanuela Alechoum è proprio lo stile insolito da commedia (commedia agrodolce, sentimentale e ironica, solo con una sfumatura drammatica), anche per raccontare temi gravi, come la difficoltà di integrazione in una cultura o la complicata elaborazione di un lutto famigliare. La protagonista e io narrante vive a Londra e lavora in un pub strafigo, con clientela intellettuale, convinta che fare la barista in un posto così l’avrebbe resa meno perdente (anche se poi ne diventa manager). Prende una stanza da Liz, digital activist, politicamente correttissima (ha una maglietta con la faccia di Bernie Sanders) e all’ultima moda in qualsiasi cosa. Liz pubblicizza cose che vanno dai fumetti su Frida Kahlo ai saponi vegani, magra, sinuosa, capelli rossi e spessi, pelle bianchissima, “sospesa in un’eterna adolescenza fatta di privilegio e finta ribellione” (felice paradigma di una radical chic londinese, solo un tantino convenzionale).

L’amica inglese diventa sua amica e soprattutto il suo mito. La adora ma le invidia tutto e arriva a confessare che spera che “Liz perda tutto quello che ha”. Irresistibile la scena i cui piscia nel balsamo per capelli di Liz o quando riempie dispettosamente il latte di soia con latte normale. La protagonista ha un desiderio bruciante di approvazione, si scusa continuamente ma vorrebbe essere come l’amica, che vive senza mai doversi scusare e senza mai chiedere permesso. Liz le consiglia tra l’altro un podcast, in cui “le persone di successo parlavano dei loro fallimenti – sempre infinitesimali rispetto ai traguardi che avevano raggiunto”. Improvvisamente il padre muore e così lei dalla Londra cosmopolita torna nel Profondo Sud, lì dove la gente al volante “è sempre arrabbiata”. Qui ritrova il groviglio di relazioni famigliari: madre – con cui ha un rapporto conflittuale (“egoista, inaffidabile e capricciosa”) -, sorella (con cui ha una discussione sull’islam e il velo), la nonna – ex militante estremista degli anni di piombo, “aveva visto la guerra da bambina e giocava a farla da adulta, perché era tutto ciò che conosceva” (ma che pure le leggeva Elsa Morante) -.

Lavora al bar del padre (Tangerinn), minacciato dai debiti e dal pizzo, frequentato quasi solo da immigrati di origine araba. Dopo aver nascosto in un barattolo sotto il letto le ceneri del padre – che poi spargeranno sul mare – , percorre in lungo e in largo quella città, “una distesa di case e mare”: la chiamano “l’inglese”. Conosce Nazim, mediatore culturale che lavora nelle navi di salvataggio e nei centri accoglienza. Discuteranno accanitamente di ogni cosa, avranno una relazione di tenerezza e innocente sensualità. Con lui farà l’amore, dopo il funerale del padre, tra i bicchieri e i vassoi di formaggio e miele rimasti dopo la festa del lutto. Le pagine sulla nonna sono tra quelle più belle: prima che lei parta per Londra le regala un rossetto: “Aveva passato la vita a credere nella lotta di classe, ma segretamente le piacevano le cose belle”. Ma anche l’esito del suo “odio” per la madre, ora malata e depressa, è raccontato con un accento di verità: prima pensava che sarebbe stato meglio non avere una madre, poi “ora che la vedevo scomparire, nascosta sotto un lenzuolo e sempre più magra, gli occhi assenti, la prospettiva di perderla mi atterriva”.

Il romanzo si snoda attraverso luoghi diversi, in particolare la biografia del padre ci porta in una Tangeri, “luogo magico” e “città di banditi”, descritta con maestria (un personaggio intimamente legato alla permanenza del padre a Tangeri riemerge dal passato a Reggio, appena dopo il funerale: il racconto di Rashid è un microromanzo dentro il romanzo). Ci sono forse alcune acerbità, o metafore un tantino goffe (“il suo sguardo mi apriva come un’ostrica”), o frasi polverose come “mi guardò in tralice” (qualcuno per caso sa bene cosa voglia dire?), ma il romanzo colpisce per la sua freschezza, per la felicità di certe invenzioni narrative, per l’intelligenza dei dettagli e la finissima introspezione psicologica (ed è anche corredato da un utile glossario di termini arabi).

Nelle ultime pagine il nodo della relazione con Liz arriva a un decisivo scioglimento. L’amica – che di ogni cosa commenta quasi ossessivamente “that’s so cool” – le dice che l’Italia è “piuttosto razzista, vero?” ma lei allora le ricorda l’imperialismo inglese, ancora incapace di assumersi le proprie responsabilità. Alla fine riesce a emanciparsi, ritrovando se stessa: “Osai credere che le mie verità fossero valide quanto le sue, meritevoli di uscire dall’ombra, di essere considerate, di essere viste”. La morte del padre e il ritorno a Reggio le hanno permesso di attraversare la linea d’ombra che separa adolescenza e maturità. Non si proietta più in un’immagine mitica, smette di imitare e invidiare l’amica, accetta interamente se stessa e fa della propria incertezza un punto di forza.

Legge l’ultima lettera, lasciata dal padre Omar: “Ho sempre avuto paura di morire…più di ogni altra cosa avevo paura di essere dimenticato. Forse per questo ti raccontavo tutte quelle storie….”. Il racconto sottrae all’oblio cose e persone. Lei ora ha capito che l’ansia di riconoscimento non deve per forza concludersi nella dialettica servo-padrone immortalata da Hegel, in cui resta alla fine una relazione di dominio. Importa solo una cosa: essere visti – con amore e gratitudine – anche da una sola persona.

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