Piantedosi viola la Costituzione, il ministro vuole vietare il corteo pro-Palestina

RMAG news

Era il 24 maggio 2000. La seduta alla Camera si preannunciava tesa. Dopo giorni di polemiche, il presidente del Consiglio Giuliano Amato era chiamato a rispondere personalmente, tra le altre, ad una interrogazione a risposta immediata presentata dal deputato di Alleanza nazionale Gustavo Selva (sì, proprio quello del Gr2 denominato RadioBelva) che contestava l’opportunità di far svolgere a Roma nell’anno del Giubileo la “giornata dell’orgoglio omosessuale”; per l’interrogante, interprete in ciò di una parte dell’opinione pubblica, il cosiddetto gay pride non era altro che una provocazione contro il Sommo Pontefice, la cui immagine in altre simili occasioni era stata apertamente irrisa.

In quell’occasione il presidente del Consiglio non poteva certo tradire, in nome della ragione politica di Stato, la sua cultura giuridica ed impartì a tutti una memorabile lezione di diritto costituzionale. Pur condividendo le preoccupazioni di Selva circa l’opportunità di tale manifestazione, Amato ricordò come l’articolo 17 della Costituzione attribuisce a tutti i cittadini il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi e prevede che le riunioni possano essere vietate soltanto per comprovati motivi di sicurezza e incolumità pubblica. Poiché tali presupposti erano oggettivamente assenti, anche perché non si trattava di un corteo itinerante ma di una manifestazione “stanziale”, il Governo non avrebbe potuto legittimamente proibire o spostare di data o di luogo tale raduno, a meno che ci fosse stato il consenso degli organizzatori. E così concluse: “purtroppo, però, dobbiamo adattarci ad una situazione nella quale (…) al di là delle opportunità, inopportunità e preoccupazioni, vi è una Costituzione, che ci impone vincoli e costituisce diritti”. Un “purtroppo” in più, forse, anche se lo stesso Amato si affrettò a precisare che l’aveva utilizzato in senso ironico; ma, come gli replicherà subito dopo Umberto Eco con la solita acutezza, l’ironia non si vende, si paga…

Questo precedente – e i precedenti nel diritto sono importanti – mi è tornato subito alla mente leggendo la decisione dell’attuale ministro dell’Interno di vietare le manifestazioni pro-Palestina (anzi, meglio, contro Israele) organizzate per il prossimo 5 ottobre ad un anno dall’attacco di Hamas. Divieto, motivato, non – attenzione! – per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica, come richiesto dall’art. 17.3 Cost., ma per l’oggetto stesso della manifestazione perché, come ha dichiarato il ministro Piantedosi, i promotori, con il loro preavviso, tendono “a celebrare l’esaltazione di un eccidio”. Che sia subito chiaro: chi scrive è sideralmente distante dalle posizioni politiche di tali manifestanti; ma chi scrive è un costituzionalista e la Costituzione garantisce tutti, anche il dissenso più odioso.

C’è, infatti, un evidente favore in Costituzione per il diritto di riunione, anche perché funzionale all’esercizio di altri due fondamentali diritti come quelli di associazione e di espressione. Tant’è che le riunioni private e quelle in luogo aperto al pubblico, contrariamente a quanto avveniva durante il regime fascista, non sono soggette ad alcuna comunicazione all’autorità di pubblica sicurezza, mentre le riunioni che s’intendono svolgere in luogo pubblico non devono essere autorizzate ma semplicemente preavvisate. Il che significa di fatto che vale il silenzio-assenso e non il silenzio-rifiuto, ovverosia che se il Questore non si oppone esplicitamente, la riunione si può svolgere.

Inoltre – ed è questo il punto costituzionale ineludibile – il diniego del Questore può essere opposto per motivi inerenti non all’oggetto o al fine della riunione, purché penalmente lecito, ma solamente al modo in cui essa si svolge. Una riunione può essere vietata o sciolta non in base a chi la convoca o a ciò che s’intende discutere ma perché vi sono “comprovati motivi” che possa svolgersi in modo non pacifico e con armi (così anche gli artt. 20 e 24 del Testo Unico della Leggi sulla Pubblica Sicurezza), mettendo a rischio la sicurezza e l’incolumità pubblica. Il che dimostra, ancora una volta, la natura non funzionale dei diritti fondamentali e il carattere non protetto della nostra democrazia, dove anche il dissenso più radicale può essere esercitato fin quando non si ricorre alla violenza.

Opporre al diritto di riunione un ordine pubblico ideale – perché non se ne condividono le finalità: ieri per il gay-pride, oggi per la Palestina – significa violare la lettera e lo spirito della nostra Costituzione, in base alla quale piuttosto l’ordine pubblico opponibile è quello materiale – quello che i francesi chiamano ordre dans la rue – che in definitiva s’identifica in quei “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica” per le persone e le cose che esclusivamente consente all’autorità di pubblica sicurezza di vietare preventivamente le riunioni in luogo pubblico. Motivi che, quindi, non possono essere ipotetici o astratti ma che devono essere giustappunto “comprovati”, cioè fondati su elementi di fatto raccolti dal Viminale che i promotori comunque possono contestare tramite ricorso dinanzi al giudice amministrativo, che su di esso deve pronunciarsi tempestivamente affinché il diritto di riunione non venga irreparabilmente violato. E sarà il giudice a stabilire se chi pensa di manifestare in barba al divieto è fuori legge, come sostiene Piantedosi, oppure se è piuttosto quest’ultimo ad aver violato con il suo divieto la Costituzione.

Se poi tale decisione del Viminale s’inquadra nel più ampio contesto di provvedimenti – vecchi e nuovi: si pensi al c.d. ddl sicurezza – che esprimono la tendenza ad introdurre per via amministrativa e legislativa limiti diretti a comprimere la libertà di riunione, non si può non notare con preoccupazione quella che pare una netta tendenza ad emarginare, anche topograficamente, quelle forme di dissenso e di protesta che attraverso la libertà di riunione vengono esercitate, impedendo lo svolgersi di manifestazioni in luoghi che, per la loro notorietà, ad essa danno risalto e visibilità, anche mediatica. La decisione del Viminale, in questa prospettiva, costituisce un’ulteriore grave, anche se non sorprendente, conferma di tale tendenza.

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