Riccardo Cocciante e i 50 anni di “Bella senz’anima”: ricordi di un tormentone estivo

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“Bella senz’anima” di Riccardo Cocciante, 50 anni sono trascorsi. La canzone a un certo punto, ricorderete, implacabilmente, pronuncia: “E adesso spogliati Come sai fare tu, ma non illuderti, io non ci casco più, tu mi rimpiangerai, bella senz’anima, na, na, na, na na, na, na, na, na…”. Facciamo macchina indietro, proviamo a ritrovare il maggio del 1974, mese esatto della pubblicazione dell’album. Tra gli eventi più significativi di quei giorni, insieme a molto altro, occorre elencare la vittoria referendaria del “No” all’abrogazione della legge Fortuna-Baslini che aveva introdotto il divorzio nel paese; il primo scudetto della Lazio di Chinaglia e Re Cecconi; la strage neofascista di piazza della Loggia a Brescia.

In questo clima occorre visualizzare il 45 giri cocciantiano dall’esemplare copertina: un viso di donna dalle orbite vuote, nere, abissali, una maschera quasi: l’Anima, appunto, assente. Non virago, non strega, più semplicemente, così almeno occorre intuire, perfino smentendo le opinioni più crudeli espresse nel forum sopracitato, una creatura amorale, “senza cuore”, dove il possibile paradigma letterario inquadra una Manon Lescaut. La voce di Cocciante libera e assolve però il cavaliere de Grieux dal sortilegio della seduzione. L’Uomo, il Maschio, consapevole del torto ingiustamente subito, trova addirittura parole di riscatto, presunta “dignità”, rabbia. Probabilmente gli servirà poco, vuoi però mettere la soddisfazione d’avere detto alla torturatrice: “so chi sei, e adesso spogliati!”? Dimenticavo: nella versione spagnola, “Bella sin alma”, la cover restituisce invece il volto dell’autore ritratto a matita, lo sguardo dolente per non smentire il dramma interiore.

Non sembri una bugia occasionale, ma personalmente se mi fosse chiesto di collocare l’istante esatto della percezione microstorica della canzone, pensando a un contesto di ragazzi “bene”, non potrei fare a meno di restituire un paesaggio di jeans “Fiorucci”, scarpe “Barrow’s”, camicette “Cacharel”, polo “Robe di Kappa”. Quanto invece ai profumi: “Capucci” o “Eau Sauvage” per lui, “Charlie” per lei. Sia detto per completezza, negli stessi giorni, Drupi, sì, supplice, eppure interlocutorio, fuori d’ogni aggressività, rispondeva a Cocciante con “Rimani”: “Rimani, rimani, e lasciati un po’ andare, dai! Domani, domani tu qualche scusa troverai, rimani, rimani telefonargli puoi da qui, rimani, rimani e digli: ‘dormo fuori’”. Non sembri una bugia, ma nel mio ricordo personale, “Bella senz’anima” rimanda alle feste d’estate a casa di un’amica molto bramata che villeggiava a Porticello, luogo che in questi giorni fa brillare una discussione globale molto complottista legate al tragico naufragio del “Bayesian”.

Ritrovo idealmente l’astuccio portatile che, sempre allora, serviva a custodire i 45 giri da portare alle feste. Il pezzo di Cocciante giunge sul piatto “Thorens” del giradischi (l’amplificatore è invece “Marantz”, la puntina “Shure”) un istante dopo “Mind Games” di John Lennon o magari “Kodachrome” di Paul Simon; immaginare che la scaletta possa comprendere anche i nuovi cantautori è prematuro: “Rimmel” di Francesco De Gregori uscirà l’anno successivo, nel 1975. E’ ancora tempo di “lenti”: le braccia del ragazzo cingono i fianchi della ragazza che ricambia posandosi sul collo. Non sempre il contatto può dirsi completo: ritrosia, imbarazzo, timidezza, pensieri silenziosi: “Non sei il mio tipo”. Al momento di “Bella senz’anima”, Lui fa cenno di sì con la testa, quasi a spiegare, non senza misoginia, che da Lei, cioè dall’altra metà del cielo, le “donne”, ci si debba aspettare di tutto, non proprio un pensiero che inquadra la tela più spietatamente anti-femminista della storia, “Il peccato” del simbolista Franz von Stuck, dove la Femmina, anzi, Eva, un serpente come stola intorno al collo, turgidi seni in vista, guarda la preda maschile con sicumera da tentatrice del peccato originale.

Più semplicemente, si tratta di Marinella, fanciulla di via Marchese di Villabianca, proprio Marinella che un giorno aveva preferito andare in spiaggia, a Mondello, con l’Altro, l’antagonista, non è detto però che la perfida non riservi anche al prescelto lo stesso trattamento infame, così la canzone di Cocciante diventava l’inno dell’inattendibilità femminile. A quel punto, sempre Lui, senza smettere di ballare, ancora stretto nel lento, solleva il dito verso il cielo e facendo proprie a voce alta le parole più sincere del testo, ammissione di ingenuità: “Nella tua trappola ci son caduto anch’io…” occhieggiando intanto verso gli amici che confermano. Come no, anche loro hanno incontrato ragazze perfide come Marinella, per non dire di Simonetta, di Marzia e di sua cugina Deborah, tutte non meno pronte a donare sofferenze e lacrime all’illuso dai mille gettoni telefonici (siamo, va ricordato, nel 1974: le cabine come cattedrali nel paesaggio dell’attesa sentimentale, e mai una risposta dall’altro capo del filo, piuttosto la voce della madre di lei che, tombale, definitiva: “Marinella non c’è, è uscita, non lo so con chi…”) in questo modo il canto di Cocciante si fa conferma complice dei patimenti subiti, vendetta canora…

Ulteriori pensieri della presunta vittima della perfidia femminile: e dire che avrei voluto che adesso fosse anche lei, qui, sotto le stelle di Porticello dove sono arrivato con il mio “Ciao”, e magari, vuoi vedere che la “stronza” mi ha preferito uno che ha una Ktm 125 o magari una Laverda 750 SFC o una Honda 500 Four? “Lo vedi allora che delle donne non ci si deve mai fidare?”, “Lo vedi che Cocciante sta interpretando il sentire ferito di tutti noi?” “A cosa è servito presentarsi con la giacca “Manuel Ritz Pipòe i jeans “Wrangler” sotto casa sua, citofonare e dirle di scendere per porgerle in regalo l’ellepì “Parsifal” dei Pooh?” E ancora cento e ancora cento meschini e dolenti pensieri di questa stessa risma, in attesa che le gonne a fiori e gli zoccoli olandesi delle sorelle illuminate dal faro del femminismo portino la loro parola fin lì a Porticello, e così finalmente “Bella senz’anima”, insieme a “Cervo a primavera”, con il suo “gabbiano da scogliera” e la sua “pernice di montagna che vola eppur non sogna in una foglia o una castagna”, resteranno unicamente patrimonio esclusivo degli zii fascistoni, quelli con l’accendino “Dupont” d’oro in tasca e la Porsche “Carrera” per trovarsi con Nunzia, l’amante dalla risata chiassosa in abito lungo verde brillante, gli stessi che in quegli anni dicevano “… però Almirante parla bene”, e magari lo votavano, e intanto in dissolvenza incrociata intonavano il “na, na, na, na, na…” del ritornello pensando allo slogan della Fiamma Tricolore: “L’ultima speranza, l’unica certezza”. E chissà se Riccardo Cocciante abbia mai pensato che la sua canzone avrebbe suscitato un simile simposio così perfetto da restituire il vecchio adagio misogino dove, in fondo a ogni pensiero arde quel “vatti a fidare delle donne”. Cinquant’anni fa “Bella senz’anima”, e si sentono tutti.

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