RIcordando Berlinguer, intervista a Macaluso: “L’errore di non dirsi socialdemocratico”

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Emanuele Macaluso ha lavorato molti anni con Berlinguer. Erano della stessa generazione, Berlinguer era più vecchio solo di due anni. Si trovarono per molto tempo sulle stesse posizioni politiche, poi, quando Berlinguer decise di interrompere l’esperienza della solidarietà nazionale ed impresse una svolta a sinistra alla politica del partito, Macaluso fu in dissenso. Però restò in rapporti molto stretti e cordiali col segretario.

Chi è stato Berlinguer?
lo credo che Berlinguer abbia avuto un ruolo essenziale nel Pci e nel paese. Oggi l’immagine del Pci senza Togliatti e senza Berlinguer è un’immagine vuota, non ha senso. Loro segnano tutta la storia del partito.

Perché la segreteria di Berlinguer fu così importante?
Per molti motivi. Innanzitutto per la durata. Berlinguer fu eletto vicesegretario nel 1969 e segretario nel ‘72. Quindi diresse il partito per dodici anni, più i tre da vicesegretario. È un periodo molto lungo, nel quale il Pci cambia la sua collocazione su tutti gli scenari. È un periodo pieno di avvenimenti di grande rilievo. C’è il terrorismo, e in relazione al terrorismo c’è la posizione che il Pci assume a difesa dello Stato. Poi ci sono un insieme di fatti internazionali che inducono il Pci a mutare la sua collocazione in politica estera e il suo rapporto con ‘Unione sovietica e con gli Stati Uniti. Berlinguer guida questo mutamento di collocazione. Lo fa in varie occasioni. Nei primi anni ‘70, quando lancia l’idea dell’ eurocomunismo, poi nel ‘76 con l’intervista a Giampaolo Pansa sul ruolo della Nato, e nel ‘77 con il discorso a Mosca sul “valore universale della democrazia”, poi ancora, in quello stesso anno, in Parlamento, quando firma il documento comune di politica estera con Dc, Psi e Pri (è la prima volta che si firma un documento comune di politica estera), e infine nell’81, dopo la crisi polacca, quando dichiara esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione russa.

Ci furono anche grandi novità in politica interna…
Sì, dopo il’47 – quando comunisti e socialisti uscirono dal governo De Gasperi – e dopo anni e decenni di scontri e contrapposizioni durissime, per la prima volta, con Berlinguer, si verifica un ritorno del Pci nella maggioranza di governo. Se prendiamo insieme tutte queste novità (lotta al terrorismo, politica estera e politica interna) vediamo bene che il passo fatto da Berlinguer fu molto grande.

Tu però spesso lo hai criticato…
No, io sono stato quasi sempre d’accordo con lui, tranne che negli ultimi anni (e poi ti dirò perché). L’obiezione che viene fatta alla sua politica – e non solo alla sua politica, alla politica di tutti noi che allora lavoravamo con lui – è che non ci si spinse abbastanza avanti. Furono compiuti molti strappi ma non si arrivò a una vera e propria revisione nella collocazione del partito, che avrebbe potuto portare a una più netta separazione del Pci dalla storia del comunismo reale.

E tu condividi questa obiezione?
Sì, in chiave critica e autocritica. Non è una critica a Beringuer: è una critica a tutti noi.

Cosa intendi per revisione della collocazione?
Intendo dire che per arrivare a una revisione profonda, il Pci avrebbe dovuto scegliere la collocazione dei partiti socialisti e socialdemocratici. Il Pci fece molte cose sul piano internazionale, ma non ebbero l’impatto che potevano avere perché mancò il coraggio della svolta socialdemocratica. Berlinguer tentò la “terza via” e si impantanò sulla “terza via”. La “terza via” non esisteva. I fatti hanno dimostrato che non c’è mai stata e non c’è ancora nessuna “terza via”. Questo fu il limite, la responsabilità di Berlinguer e del suo gruppo dirigente. Lui alla fine identificò la “terza via” nel Pci, e quindi vide il partito comunista italiano come una via. Da qui è nata anche una deformazione un po’ elitaria dei comunisti italiani che si consideravano diversi rispetto alla storia che li aveva prodotti e che aveva sempre visto divisi i partiti comunisti da una parte e i partiti socialisti dall’altra.

Quindi tu in Berlinguer vedi luci e ombre?
Gli rimprovero un solo errore: la svolta di fine 1980, la seconda svolta di Salerno. Lui lì sbagliò. Io ho scritto nel mio libro che ci fu una perdita di lucidità da parte di Berlinguer. Lo confermo. Io penso che in quell’occasione fu poco lucido. Lui decise la fine della solidarietà nazionale e l’uscita del Pci dalla maggioranza, ma non diede mai forti motivazioni di questa scelta. E questo è un errore politico. Io non dico che fosse giusta o sbagliata quella scelta: dico che non fu motivata. Ho un ricordo molto netto. Ai primi giorni di aprile del 1979 era in corso il congresso del Pci, a Roma. Parlò Umberto Terracini e svolse una requisitoria contro la politica di solidarietà nazionale. Berlinguer venne da me e mi chiese di intervenire e rispondere a Terracini. Io lo feci. E sostenni, così come aveva fatto Berlinguer nella relazione introduttiva, e come poi farà di nuovo nelle conclusioni, la validità della politica di solidarietà nazionale. Capisci? A metà del 79 la politica era quella, e non si discuteva: eppure in quello stesso anno il Pci va all’opposizione e l’anno successivo c’è la svolta di Salerno e si proclama la linea dell’alternativa alla Dc. Questa inversione di rotta non fu motivata.

Tu però nel 1980 avevi criticato la linea di Berlinguer, prima della svolta di Salerno…
Io feci un’intervista al “Mondo”. E il giornalista mi chiese: quale politica deve fare il Pci? Io risposi: “La politica della solidarietà nazionale, però con una variante importantissima: la direzione politica non può più essere della Democrazia cristiana. La direzione deve passare in mano alla sinistra. E siccome avverto chiara la difficoltà che a fare il primo ministro sia un comunista, dico che deve essere un socialista”. Allora il giornalista mi disse: “Ma il socialista oggi è Craxi…” lo dissi: “Sì, Craxi, va bene”. La segreteria del partito fece una nota di smentita, disse che erano opinioni personali e che la posizione del Pci non era quella. Poi alla fine dell’anno ci fu il terremoto in Irpinia, con più di 2000 morti e con disastri nei soccorsi, ci furono le denunce del Presidente della Repubblica Pertini contro il malaffare politico, e improvvisamente maturò la svolta di Berlinguer.

Fu una scelta personale di Berlinguer?
Non è vero quello che Luciano Lama ha scritto nel suo libro, e cioè che Berlinguer fece la conferenza stampa a Salerno, e annunciò la svolta senza averne prima parlato con la Direzione del partito. Non è vero: ci fu una riunione della Direzione, me lo ricordo molto bene, e a quella riunione si presentò con un documento nel quale cambiava la linea del Pci, poneva l’obiettivo dell’alternativa, senza però indicare i parntner dell’alternativa. In quel documento aveva scritto che il perno dell’alternativa doveva essere il Pci. Sembrava una ipoteca sulla presidenza del consiglio. Si accese una discussione in Direzione, e alla fine lui levò l’accenno alla centralità del Pci. Nella discussione ci fu opposizione alla linea di Berlinguer. Si opposero Napolitano, Chiaromonte, Bufalini, io e altri compagni. Lui poi fece questa conferenza stampa, a Salerno, alla quale partecipai anche io, che allora ero responsabile del Mezzogiorno. Quella sua scelta secondo me aprì una crisi di prospettiva nel Pci. Era una posizione che aveva una base puramente propagandistica. Io penso che lui avesse in mente questa idea: impedire alla Dc di governare, cioè dimostrare che non si poteva governare senza di noi, quindi fare saltare l’accordo tra Dc e Psi (accordo che invece poi fu fatto), e per fare questo voleva mettere il partito in una posizione di scontro frontale e di ostruzione, in modo da fare verificare agli altri che la situazione in Italia era tale che senza comunisti non si faceva niente. Io credo che lui avesse in mente questa idea tattica. Però sbagliò. Il modo nel quale il Pci pose fine alla solidarietà nazionale ebbe come prima conseguenza uno scossone nella Dc. La Direzione di Benigno Zaccagnini fu messa in minoranza, la sinistra fu sconfitta e perse il congresso, emerse Forlani che guidò una politica opposta a quella che Berlinguer auspicava. E stabilizzò l’accordo tra Dc e Psi. Così nacque una conflittualità molto forte tra Pci e Psi. Il quale Psi, a sua volta, cercava esattamente questo: un conflitto con il Pci. Per portare avanti la politica che poi lo portò a Palazzo Chigi, Craxi aveva bisogno di qualificarsi come l’uomo che contrastava i comunisti.

Qual è, secondo te, il motivo vero per il quale Berlinguer interruppe la politica di solidarietà nazionale?
Già quando lui fece il discorso alla festa dell’Unità di Genova, a settembre dell’78, pensava a qualcosa del genere. Fu un discorso molto di sinistra, molto classista, che preannunciava una svolta. Perché? Per vari motivi. Dopo la morte di Moro molti dirigenti della De iniziarono una campagna politica con la quale cercarono di utilizzare il delitto delle Br in chiave anti-comunista. I risultati elettorali del Pci, dopo la morte di Moro, non furono buoni. Lui si era convinto che si fossero staccate dal Pci soprattutto frange di popolo. A Genova rilanciò il discorso degli esclusi, degli emarginati. Pensava che fossero quelli i settori da recuperare, perché non vedevano più nel Pci il riferimento della loro battaglia. Non so se fosse vero. Nel ‘76 l’avanzata del Pci fu determinata da una parte della borghesia che vedeva nel Pci una forza d’ordine (contro il terrorismo e l’inflazione) e da un pezzo di estrema sinistra che pensava che il Pci avrebbe aperto una forte contraddizione nel sistema. L’avanzata si fermò nel ‘78-’79, o forse si era già fermata nel ‘77. Ci furono dei risultati elettorali non buoni.

Ci fu la sconfitta elettorale del 79.
Fu un calo elettorale, non una sconfitta. Il Pci restò al 30 per cento, cioè mantenne una forza enorme. L’impennata del ‘76 non poteva essere considerata un fatto acquisito, stabile: era un eccezione.

Quindi i motivi della svolta furono due: la morte di Moro e il calo elettorale. È così?
Credo di si. Furono i due motivi essenziali. Nella Dc iniziarono a farsi sentire le resistenze. Per esempio ci fu tutta la storia dell’album di famiglia, cioè dell’avvicinare la storia del Pci alla storia dei terroristi…

L’album di famiglia è una frase di Rossana Rossanda…
Sì, però la Rossanda la usava solo per avvertire la sinistra che non poteva non fare i conti col terrorismo e con le radici politiche del terrorismo. Cioè per opporsi a quella teoria che diceva: “sono provocatori, sono fascisti, sono delinquenti e basta”. I democristiani invece usarono l’idea dell’album di famiglia in chiave di polemica politica contro di noi. Cioè per dire: “Guardate che i comunisti e i terroristi sono parenti. Come facciamo a governare col Pci?”

Tu in sostanza dici che i Berlinguer furono due: quello fino al ‘79-80 e quello della svolta?
No, Berlinguer è uno solo. È una personalità complessiva. Anche il Berlinguer dell’alternativa è Berlinguer. Solo che io credo che nell’80 lui sbagliò la scelta politica.

Mentre eri d’accordo con il compromesso storico…
Sì io ero d’accordo. Anche se oggi – ex post – ho una obiezione seria. Il compromesso storico era un modo per non fare i conti fino in fondo con la storia del Pci, con l’essere comunisti. L’arco di forze costituzionali, la prospettiva del compromesso storico, il fatto che non si parlasse in Italia di una maggioranza di sinistra, erano tutte cose che servivano per varie ragioni. Una ragione, che c’era già in Togliatti, era sicuramente la convinzione che le riforme di struttura in Italia non si potessero fare con il 51 per cento del Parlamento, che occorresse una maggioranza molto vasta e il concorso delle “masse popolari cattoliche”, che noi chiamavamo così ma poi identificavamo sempre con la De. Ma c’è una seconda ragione: il tentativo di aggirare una questione politica che era davanti a noi e noi non vedevamo o negavamo. E la questione era semplice: come organizzare una sinistra che fosse legittimata a governare. E quindi come eliminare quel fattore che Ronchey chiamava il fattore K, cioè il marchio comunista. Noi rimuovevamo la questione e quindi rinunciavamo alla possibilità che la sinistra governasse da sola e ricorrevamo alla teoria della necessaria alleanza generale con tute le forze democratiche. Trovavamo lì la legittimazione. La prendevamo da fuori.

Perché si voleva aggirare la questione del fattore K?
Anche per motivi strategici. Sia Togliatti che Berlinguer vedevano la politica italiana dentro un quadro internazionale. E in quel quadro restava fermo l’obiettivo della lotta all’imperialismo. Più ancora in Berlinguer che in Togliatti, perché Berlinguer era un forte terzomondista. E quindi il contesto internazionale nel quale si faceva politica era così grande che spingeva a dire: la soluzione socialdemocratica è riduttiva, non possiamo accoglierla. E questo era anche il motivo per il quale non si arrivava mai alla rottura definitiva con l’Unione sovietica. Sebbene i giudizi sull’Unione sovietica fossero feroci. Però l’Urss era comunque il contrappeso all’America, al capitalismo, era il punto di rottura, era l’unica garanzia di non arrivare a un mondo unipolare, e in un mondo unipolare non ci sarebbe stato spazio per le riforme.

Berlinguer non arrivò mai alla rottura definitiva con l’Urss?
No. Anche se io dico sempre che se c’è una persona che sapeva quanto ignobili fossero quei regimi, questa persona era Berlinguer. Se non altro per una vicenda personale. Quella dell’incidente in Bulgaria. Cosa successe? Nel 1973 lui era in visita in Bulgaria, e al ritorno, mentre lo accompagnavano all’aeroporto, la sua auto fu investita da un camion. Lui rimase ferito e il suo accompagnatore fu ucciso. Il camion piombò all’improvviso, a tutta velocità, da una strada laterale sull’auto di Berlinguer, che era scortata. Conoscendo i bulgari si sa come gli aspetti logistici delle visite degli ospiti stranieri siano organizzati bene: la polizia che scorta, le strade bloccate, i vigili e tutto. Come fu possibile che quel camion impazzito sbucasse da una strada laterale a quella velocità e che colpisse l’auto di Berlinguer? Se ne parlò poco, ma quando tornò in Italia Berlinguer mi confessò che lui aveva il sospetto che i bulgari avessero tentato di ucciderlo. Mi disse di non dire niente a nessuno, e io non dissi niente a nessuno. Poi la cosa uscì fuori molti anni dopo. Diciamo che quest’episodio non lo spinse a simpatia verso i regimi dell’Est.

E allora perché tu dici che la rottura vera non ci fu mai?
Per il semplice motivo che Berlinguer era comunista. Era comunista fino in fondo. Era convinto che il capitalismo doveva essere superato, e quella roba lì dell’est, con tutte le sue storture e le sue schifezze, serviva a mettere un freno all’espansione del capitalismo sia sul piano economico, sia su quello politico, sia su quello militare. E quindi lui pensava che non bisognasse squalificare i regimi dell’est fino al punto da dire che erano irriformabili. Dire che erano irriformabili voleva dire chiudere la prospettiva e dare spazio infinito all’America e al capitalismo. Perciò diceva che il socialismo era riformabile. Lui diceva: “si deve fare una rivoluzione nella rivoluzione”. Ma tenendo fermo il regime anticapitalistico. Per capire il disegno del compromesso storico bisogna capire questo contesto generale. Lui aveva questa dimensione della lotta politica.

E per questi motivi nel 76 e poi nel 77 accettò un accordo a ribasso con la Dc?
No, io questa critica non la condivido. Io penso che nel ‘76 lui fece una scelta giusta. Perché giusta? Perché era inevitabile. Ci sono appuntamenti politici con la storia che non possono essere evitati. Se con la tua condotta, le tue scelte, e la tua battaglia hai contribuito a creare quegli appuntamenti, poi ti devi presentare. Nel ‘76 la situazione politica era molto complessa. Il centrosinistra era morto. Lo aveva dichiarato morto De Martino, il giorno di capodanno, scrivendo un articolo sull’’Avanti!” Nel quale liquidava il governo Moro. Si andò alle elezioni su questa base.Moro e La Malfa di chiararono che l’asse Dc-Psi-Pri era definitivamente rotta. In campagna elettorale Eugenio Scalfari lanciò l’idea del sorpasso del Pei ai danni della Dc, e Moro, saggiamente, la raccolse. Così furono elezioni quasi bipolari, tutte giocate sulla competizione Dc- Pci. E infatti il Pci andò avanti e raccolse il massimo storico in Parlamento, con oltre il 34 per cento dei voti, e anche la De andò avanti, guadagnò quattro punti e arrivò al 38 e qualcosa. Insieme De e Pci controllavano i tre quarti del Parlamento. Non c’era nessuno sbocco politico diverso da un accordo Dc-Pci. E poi la crisi era gravissima, l’economia era allo sbando, il prezzo del petrolio alle stelle, c’era un’inflazione a due cifre e c’era il terrorismo che iniziava a uccidere (il primo omicidio fu della primavera ‘76, fu ucciso Coco, un magistrato genovese). Si può discutere su come andarono le trattative, ma non si può discutere sulla necessità di fare l’accordo. Oltretutto quell’accordo per noi era importante, perché per la prima volta si ruppe il veto al Pci nell’area di maggioranza, cadde il “non possumus” che aveva sempre limitato le nostre possibilità politiche. Io avevo dei dubbi sul fatto che noi accettassimo Andreotti come capo del governo. Andreotti era un uomo dei conservatori, e appena quattro anni prima aveva presieduto un governo di centro-destra. Io pensavo che sarebbe stato molto meglio avere un altro presidente del Consiglio. Per esempio Moro. Andai a trovare Enrico e gli dissi: “impuntiamoci su Andreotti, facciamo un braccio di ferro e vediamo se arriva Moro…” . Lui scosse la testa e mi disse di no. Disse: “Moro non arriva. Perché è Moro che dice che senza Andreotti lui il governo non lo fa. Andreotti per lui è una garanzia internazionale e nazionale”. Mi prese anche in giro. Mi disse: “Emanuele, tu sei il solito avventurista”. Aveva ragione lui quella volta. Tanti oggi dicono che fu quello l’inizio della rovina del Pci. Io penso di no, non fu affatto l’inizio della rovina. Fu un passaggio importante e positivo.

È vero che Luigi Longo non era d’accordo?
Longo era molto critico verso la politica del compromesso storico. Non gli piaceva. Intanto non gli piaceva il nome, la formula. Poi con l’andare degli anni Longo diventò molto critico nei confronti di Berlinguer. Un po’ perché si sentì escluso dalla direzione del partito, messo da parte. Un po’ perché Berlinguer guidò il partito in modo spesso personale: molte scelte, molti strappi, furono individuali. E Longo questo non lo sopportava. Aveva un’altra idea su quale fosse il metodo giusto per guidare il Pci. Non lo persuadeva affatto quel modo di dirigere di Berlinguer. Credo che negli ultimi anni si fosse pentito di averlo scelto come successore.

Era stato lui a scegliere Berlinguer?
Sì era stato lui. Anche se, come sempre, in modo collegiale. Aveva investito della decisione tutto il gruppo dirigente. Prima fece una consultazione nell’ufficio politico, che era un organismo ristrettissimo, mi pare di otto persone. Poi diede incarico a Agostino Novella di consultare tutta la Direzione del partito, cioè una trentina di persone.

Come mai si decise per Berlinguer? Nel ‘69 Berlinguer non era un nome di primissimo piano. Oltretutto, se non sbaglio, dopo l’XI congresso era stato un po emarginato…
Sì, dopo l’undicesimo congresso, che fu quello dello scontro con Ingrao, Berlinguer fu allontanato dall’ufficio di segreteria e mandato a fare il segretario regionale del Lazio, un compito di secondo piano. Le cose andarono così. A quell’epoca c’era un ufficio di segreteria e in quell’ufficio c’eravamo Berlinguer, Natta, io, Di Giulio e Franco Calamandrei. Alla fine del Congresso, dopo che Ingrao era stato messo in minoranza, Amendola, Alicata, Bufalini, Novella e altri criticarono l’ufficio di segreteria. Lo accusarono di centrismo. Cioè di essere stato a guardare, di fronte alla battaglia politica tra Ingrao e la maggioranza, e di non essersi speso contro Ingrao. E poi chiesero che nel definire il nuovo gruppo dirigente si escludesse Ingrao dall’ufficio politico. Berlinguer, Natta ed io andammo da Longo e dicemmo che emarginare Ingrao sarebbe stato un errore grave. Alicata e Amendola insistevano e chiesero anche che Berlinguer, Natta ed io fossimo allontanati dal centro. Per Berlinguer chiesero che fosse mandato a Milano, per me proposero il Veneto. Per Natta mi pare che alla fine si adattarono a farlo restare. Comunque sia io che Berlinguer dicemmo di no. Io allora fui mandato alla sezione propaganda, e Berlinguer alla segreteria regionale del Lazio. Era un incarico di riposo, e cosi Berlinguer si impegnò molto sul piano della politica interazionale. Longo stesso lo spinse in questa direzione. E quando tre anni dopo, cioè al dodicesimo congresso, si pose la questione della vicesegretaria, il suo nome tornò alla ribalta e andò in ballottaggio con Natta e Napolitano. Alla fine la scelta si ridusse a Berlinguer o Napolitano, e la grande maggioranza dei membri della direzione preferirono Berlinguer.

Anche tu?
Sì, anche io. Perché stimavo molto Giorgio, ma credevo che Berlinguer unisse di più, fosse più adatto a parlare con l’ala sinistra del partito, e poi fosse più di tutti figlio del Pci.Per questo scelsi lui. Pensavo che se avessimo scelto Napolitano sarebbe stato più difficile ricomporre l’unità del partito.

Qualcuno si oppose?
Forse sì, ma fu una scelta molto serena, anche perche Napolitano, come sempre, si comportò da gran signore o aiutò il partito a prendere la decisione senza contraccolpi.